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La conversione ecologica. There is no alternative

Semplice senza banalità, concreta senza essere arida, radicale senza estremismi: la proposta delineata da Guido Viale nel recente libro «La conversione ecologica. There is no alternative», sembra sfidare la forza di gravità delle politica tradizionale, scompigliando le carte in nome di una lettura esigente della realtà. Lettura che parte da «uno sguardo disincantato sulla natura della crisi in corso […], questa crisi è senza sbocchi: non se ne uscirà, né presto né tardi, riprendendo il cammino interrotto della crescita e della distruzione dell’ambiente: più ci si accanisce in questa direzione e più la crisi si avvita su se stessa». D’altronde poco possiamo aspettarci dalla green economy: «Il grande capitale di green economy ne fa poca e male, occorre farne molta e bene [affrontando i problemi nella loro implicazione sociale]» sottolinea Viale. La proposta è la conversione ecologica [termine che tiene al suo interno gli aspetti spirituali e intimistici del cambiamento] sulla scia di Alex Langer: un orizzonte radicale di cambiamento praticato nella contingenza del qui ed ora, a partire dalla materialità delle condizioni di vita, e del lavoro prima di tutto.La conversione ecologica può essere vista come «una radicale inversione di paradigma nei processi economici, per sostituire alle economie di scale fondate su grandi impianti e grandi reti di controllo economico e finanziario i principi del decentramento, della differenziazione territoriale, dell’integrazione, attraverso un rapporto diretto, anche personale, tra produzione di beni ed erogazione di servizi e mercati di consumo». Non parliamo di un’operazione tecnocratica condotta da principi ed esperti illuminati: «la transizione verso produzioni ambientalmente compatibili – scrive Viale – non solo è irrealizzabile senza una partecipazione consapevole delle comunità coinvolte; ma ha anche bisogno dei loro saperi». D’altronde i cambiamenti tecnologici non sono sufficienti se il contesto politico e sociale in cui avvengono non si modifica, e il recente boom delle rinnovabili lo dimostra: «i processi che concorrono a una riconversione del sistema economico in grado di portare il pianeta fuori dall’era dei combustibili fossili non si limitano al ricorso alle fonti rinnovabili e all’efficienza energetica. Ne comprendono molti altri, tra cui le dematerializzazione dei consumi, l’agricoltura biologica, la mobilità flessibile, la cultura della manutenzione. L’esatto contrario delle grandi opere e della produzione di massa di tipo fordista a cui i governi di tutto il mondo hanno cercato di affidare l’uscita dalla crisi». I beni comuni, al centro dell’analisi, non costituiscono una tassonomia di beni tutelabili ma oggetti di processi politici di riconoscimento infatti «nessun bene sarà mai veramente ‘comune’ fino in fondo; ovvero ci sarà sempre la possibilità di rendere più intenso e profondo questo suo carattere».Viale, non si limita all’enunciazione del «si dovrebbe», ma si cimenta nella identificazione di percorsi concreti di conversione, in aree determinate, a partire da minoranze consapevoli armate di competenze e analisi adeguate. E che prende le mosse anche da un’analisi delle forme di sapere sociali, dalla crisi della conoscenza che pervade la società dove «quello che si perde soprattutto è la tensione alla costruzione di un universo cognitivo coerente e unitario». Una conversione che guarda al locale, riprendendo le così analisi della Rete del nuovo municipio: «il principio guida della riconversione dovrà essere necessariamente la graduale «ri-territorializzazione» delle produzioni e dei mercati […]. E’ sui territori, a partire dalle loro specificità sia geografiche e produttive, che sociali, politiche e culturali che le cose devono partire».Un punto di vista che contempla conseguenze politiche precise: «Lo stato e gli stati sono la controparte e non gli agenti della trasformazione come quella delineata, che non può essere governata o gestita, ma nemmeno progettata, dall’alto e in forma centralizzata». La sfida è lanciata ai movimenti prima di tutto e alla capacità di superare, in qualche misura sé stessi: «Non bastano la rivendicazione, la contrapposizione e le lotte, ma ci vogliono anche progettualità, valorizzazione di tutti i saperi e le competenze mobilitabili, aggregazioni non solo dell’associazionismo cresciuto dal basso, ma anche di imprenditorialità e di presenze istituzionali». Una proposta esigente che cerca di sfidare terreni complessi – la produzione industriale, il protagonismo dei lavoratori – e che sarebbe utile, e vitale, si nutrisse di sperimentazioni concrete. Sarebbe bene leggere e utilizzare questo libro come un cantiere aperto, modificabile dal racconto delle esperienze sul campo, dalle piccole gocce di conversione che si spera annuncino la pioggia del cambiamento. (Gianni Belloni su Carta, 17 maggio 2011)

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