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Responsabilità solidale, pubblico sempre assente

Niente da fare: pubblico e privato, in Italia, restano sempre due universi separati. E le regole che valgono per l’uno, il più delle volte non hanno lo stesso valore per l’altro. Tanto più che quasi sempre la giurisprudenza, in ultima analisi, finisce per confermare questa linea. Prendiamo ad esempio l’annosa questione della “responsabilità in solido” che regola i rapporti tra committenti ed appaltatori negli appalti di servizi.

La questione è recentemente tornata alla ribalta in seguito a una recente sentenza della Cassazione Sezione Lavoro, la n. 20327/2016 depositata il 10 ottobre scorso, secondo cui “Il Comune non è responsabile con l’appaltatore per il mancato pagamento delle retribuzioni dei lavoratori impegnati nell’esecuzione dell’opera pubblica.” In sostanza la Suprema Corte ha ribadito la diversità di disciplina rispetto al settore privato, che trova la sua ragione d’essere in una serie di controlli previsti (ma spesso rischiano di restare sulla carta, ci permettiamo di riflettere) nel corso dell’appalto pubblico e assenti (ma anche qui bisognerebbe considerare caso per caso) nel privato, ma anche nella necessità di preservare i conti dello Stato in modo da non esporre le amministrazioni a un’alea contabile. Insomma, se nel privato il principio della responsabilità solidale si fonda sulla scelta del contraente, secondo una (giusta) logica di sviluppo di comportamenti virtuosi, tutto questo nel pubblico non vale per due ordini di ragioni: il primo è un (almeno teorico) rigore nei controlli che nel pubblico sarebbe maggiore rispetto al privato. In secondo luogo, ben più concretamente, ci sono le ragioni di cassa.

Il pronunciamento è interessante anche perché ribalta diametralmente la decisione della Corte d’Appello di Torino, che aveva condannato il Comune, in solido con una Srl, a pagare 12.409 euro a un dipendente della società appaltatrice quale «retribuzione diretta, indiretta e differita per il periodo dal 10 agosto 2012 al 6 maggio 2013. Il giudice di secondo grado aveva ritenuto superabile la decisione n. 15432/14 con cui la Cassazione aveva affermato l’inapplicabilità dell’articolo 29, comma 2, del Dlgs 276/2003 ai contratti di appalto stipulati dalle Pa. Giusto per rinfrescarci la memoria, si tratta della legge che stabilisce che i committenti di contratti di servizi rispondano, in solido con gli appaltatori, per i debiti retributivi e contributivi eventualmente maturati nei confronti del personale impiegato nell’esecuzione del servizio fino a 2 anni dalla cessazione del contratto stesso.

La controrisposta della Cassazione non ha tardato ad arrivare: il decreto legislativo 276 non è applicabile alla pubblica amministrazione, secondo quanto disposto dal D lgs 276/2003 stesso, all’art. 1, dove si dice che il decreto “non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”, rafforzato dall’art. 9 del Decreto legge n. 76 del 28 giugno 2013, che afferma in maniera chiara l’inapplicabilità della responsabilità in solido nei contratti di appalto stipulati dalla PA. Continua dunque la disparità di trattamento tra il committente pubblico e i privati, secondo una tendenza ormai costante della Suprema Corte.

Sentenza Cassazione

Link Decreto 276/03

Link Decreto 76/13

 

 

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