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Tfr in busta: a caro prezzo per il lavoratore, difficoltoso per le imprese

Come si ricorderà, la Legge di Stabilità per l’anno in corso (190/2014), all’articolo unico, commi 26-34, ha introdotto fino al 30 giugno 2018 la possibilità, per i lavoratori dipendenti, di chiedere la monetizzazione mensile, direttamente in busta paga, della quota maturanda di Tfr. Ricordiamo che, nel sistema precedente, le vie per il lavoratore erano solo queste: nelle aziende con meno di 50 dipendenti poteva scegliere se lasciare il Tfr in azienda o destinarlo a un fondo di previdenza complementare; nelle aziende con almeno 50 dipendenti il Tfr poteva andare al fondo Tesoreria presso l’Inps o al fondo di previdenza complementare, comunque fino alla conclusione del rapporto di lavoro.

La “nuova via”
Oggi si aggiunge una nuova via, seppure “in via sperimentale” e fino al 30/6/2018: farsene versare mensilmente una parte, conservando in ogni caso il proprio “tesoretto” in vista della pensione. Quello che mancava, ad oggi, erano le modalità operative: proprio a questo si riferisce il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29/2015, uscito il Gazzetta Ufficiale lo scorso 19 marzo (GU n.65). Il testo del Regolamento contenuto nel Decreto, composto da 15 articoli, fissa dunque la nuova disciplina, ufficializzando la possibilità di richiedere, in via sperimentale, il Quir (Quota integrativa della retribuzione pari alla  quota maturanda di cui all’articolo 2120 del Codice  civile, che disciplina appunto il Trattamento di fine rapporto) come parte integrante della retribuzione per il periodo di paga decorrente da marzo 2015 a giugno 2018. In definitiva il Decreto trasforma la quota di Tfr maturata mensilmente in parte della retribuzione (al netto dello 0,50%).

Per il datore è un dovere
Anche se rimandiamo i dettagli alla lettura completa del testo (che linkiamo sotto), ricapitoliamo i passaggi essenziali: il datore di lavoro raccoglie le istanze da parte dei lavoratori (per le quali è già a disposizione un apposito modello allegato al DPCM 29), e verifica se vi siano, a norma di legge, condizioni ostative. Dopo aver raccolto le domande, il datore inizia a corrispondere in busta paga, dal periodo di paga successivo a quello della presentazione della domanda, la quota Quir. Durante il periodo di corresponsione del Quir, il cui limite è comunque fissato, in via sperimentale, al 30 giugno 2018, viene sospesa l’eventuale corresponsione del Tfr all’Inps o ai fondi di previdenza complementari.

Tre mesi di tempo per le “PMI” che richiedono finanziamenti
Ma c’è un altro tassello da aggiungere, e riguarda le aziende con meno di 50 dipendenti. Grazie a un recentissimo accordo quadro tra Abi e Ministeri dell’Economia e del Lavoro (20 marzo, link sotto all’accordo e alle relative linee-guida), le imprese con meno di 50 dipendenti -che in caso di scelta del Quir non potrebbero più contare su una fetta di liquidità che restava ancora in azienda- che dovessero riscontrare problemi nella gestione del flusso finanziario per fare fronte alle richieste di Quir potranno accedere a finanziamenti a tasso agevolato. In questo caso la corresponsione del Quir in busta paga potrà avvenire tre mesi dopo l’istanza (quindi a partire da luglio per le richieste pervenute ora). In caso di finanziamento, sarà l’Inps a comunicare alla banca, a cadenza mensile, l’importo della Quota da versare (facendo riferimento al flusso Uniemens).

Ma ai lavoratori costa di più
I lavoratori, però, devono essere consapevoli che nel caso optassero per il sistema Quir, il loro saldo sarà comunque negativo rispetto a quanto accadrebbe qualora continuassero ad accumulare il Tfr, anche nel caso di retribuzioni non elevate. Infatti non sono previste a tale proposito soglie retributive. Ciò soprattutto perché il fisco “non fa sconti” sulla parte di reddito integrativa, soggetta a un regime più rigido rispetto ai Tfr incassati “tutti in una volta” a fine rapporto. Molto eloquente l’esempio che si legge sul Sole 24 Ore del 24 marzo 2015, riferito ad un lavoratore milanese (la localizzazione serve per il calcolo delle addizionali regionale e comunale, ma il succo del discorso è simile per tutta Italia) con una retribuzione media lorda di 1.850 euro mensili. Nel periodo che va fino a giugno 2018, data di termine del regime sperimentale (poi si vedrà), il lavoratore percepirebbe circa 5mila euro di reddito “integrativo”, che sarebbero soggetti però a un’aliquota d’imposta pari a quasi il 34% (poco più di 1.700 euro, non poco quindi). Senza scendere troppo nei tecnicismi, se poi si calcola l’imposta complessiva (quindi sommando redditi ed eventuali Quir), si può vedere che, sul periodo 2015-2018 (calcolando un’anzianità di 20 anni) a fronte di un’imposta di 7.041 euro lasciando il Tfr tutto in azienda, ricorrendo al Quir si verrebbe tassati di circa 345 euro in più (7.386 euro). Insomma, a meno che non si sia nell’urgente condizione di incrementare il proprio netto in busta paga, ai dipendenti potrebbe convenire -da un punto di vista puramente economico- mantenere il sistema tradizionale.

Link al testo ufficiale DPCM 29/15

Link Accordo-quadro Ministeri-Abi del 20 marzo

Link linee guida per l’erogazione del finanziamento

 

 

 

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