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Superlavoro e ritmi massacranti, attenzione!

Ritmi di lavoro eccessivi con conseguenti ricadute sulla salute? Quante volte i datori di lavoro si sentono accusare di “stressare” troppo i dipendenti, con dovizia di nefaste conseguenze prospettate e, spesso, mai provate?

Ebbene, la Corte di Cassazione sez. Lavoro, con sentenza n. 34968 del 28 novembre 2022, mette ordine nella complessa questione: un dipendente pubblico (ma il fatto è perfettamente applicabile anche alle imprese di pulizie/ servizi integrati/ multiservizi) ha agito contro il datore per trovare ristoro di danno biologico (nel caso di specie sintomi depressivi, malore, infarto)  per il risarcimento del danno biologico subito per violazione dell’art. 2087 c.c. e delle pertinenti norme del D.Lgs. n. 626 del 1994, oltre ai danni alla professionalità, insistendo in subordine per il riconoscimento dell’ascrivibilità della patologia cardio-vascolare a causa di servizio con accertamento del diritto al pagamento del c.d. equo indennizzo. In primo e secondo grado il giudice ha riconosciuto solo il diritto all’equo indennizzo, mentre ha rigettato la domanda risarcitoria.

Si è arrivati dunque agli Ermellini, i quali si sono espressi in tali termini: “è indubbio che l’azione dispiegata dal ricorrente si riporti ad una fattispecie di responsabilità contrattuale, con essa essendosi inteso denunciare l’inadempimento datoriale rispetto all’assicurazione di condizioni di lavoro idonee a preservare la salute degli addetti, sicché il richiamo della Corte territoriale all’art. 2043 c.c. è in sé errato (v., per i criteri distintivi nella presente materia, Cass., S.U. 8 luglio 2008, n. 18623); l’assetto degli oneri di allegazione e prova in ambito di responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 2087 c.c., è consolidato nella ricorrente massima di questa S.C. secondo cui il lavoratore che agisca ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha l’onere di provare l’esistenza del danno subito, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro”.

In sostanza, cercando di sintetizzare, si può parlare di “prova doppia”: da un lato spetta al dipendente provare le effettive ricadute sulla salute delle proprie condizioni lavorative. Infatti, dice la Corte, “lo svolgimento di un lavoro che non sia in sé vietato dalla legge rende fisiologico – e quindi non imputabile a responsabilità datoriale – un certo grado di usura o pregiudizio, variabile sotto il profilo fisio-psichico a seconda del tipo di attività”. E ancora “le conseguenze negative che il lavoratore subisce per effetto di un’attività consentita, ma pregiudizievole per la salute sono coperte in via indennitaria dalla sola assicurazione pubblica, per la cui attivazione è sufficiente, come è noto, il mero ricorrere di una “occasione” di lavoro”.

D’altra parte, tuttavia, anche il datore ha responsabilità, che in questo caso consistono nel “dover dimostrare di avere osservato le regole proprie che governano l’attribuzione dei compiti al dipendente”. Il principio è sancito lapidariamente: “In tema di azione per risarcimento, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per danni cagionati dalla richiesta o accettazione di un’attività lavorativa eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità, il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive ed a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno, mentre spetta al datore di lavoro, stante il suo dovere di assicurare che l’attività di lavoro sia condotta senza che essa risulti in sé pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, dimostrare che viceversa la prestazione si è svolta, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore”.

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