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Repêchage, rimando al futuro

Obbligo di repêchage proiettato addirittura… nel futuro! E’ questo, in fondo, il senso della sentenza di Cassazione n. 12132/2023, con cui l’8 maggio scorso gli Ermellini hanno sancito un principio che darà filo da torcere alle imprese. Cerchiamo di capire perché. In sostanza, pronunciandosi in ultima istanza, dopo un lunghissimo e controverso contenzioso, sull’illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo (soppressione del posto di lavoro con impossibilità di “ripescaggio” in posti analoghi o similari) intimato a una dipendente nel lontano 2011, la Cassazione intimava il reintegro della lavoratrice attraverso un’articolata argomentazione organizzata in più punti.

Il principale risulta senza dubbio il 9.6, in cui la Cassazione, allineandosi al precedente giudizio di merito, ha ritenuto che “il datore di lavoro, nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento, debba prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso. Quando, come nel caso in esame, tale circostanza sia ben nota al datore di lavoro questi ne deve tenere conto diversamente risultando il suo comportamento pur formalisticamente corretto in contrasto con i principi di correttezza e buona fede”. Avete capito bene: non basta valutare la situazione contingente dell’impresa: occorre anche prevedere quale sarà quella immediatamente futura!

Dunque la prospettiva del “ripescaggio” si amplia anche al futuro, non essendo (più) sufficiente valutare la presenza di posizioni in cui sia possibile il ricollocamento del lavoratore nel momento del licenziamento, dovendosi prendere in esame anche quelle posizioni che, pur ancora ricoperte, si renderanno disponibili in un arco temporale prossimo alla data in cui viene intimato il recesso. In quel momento, va detto, le posizioni erano già di fatto prevedibili, trattandosi di quelle di due colleghi in posizioni fungibili che avevano già rassegnato le dimissioni. Il fatto però eras più complesso, in quanto dall’esame attento degli atti emerge che le posizioni in oggetto, di fatto, erano già avviate alla soppressione, e che le dimissioni dei due dipendenti erano state in qualche modo “caldeggiate” in vista appunto dell’annullamento delle loro mansioni. A guardar bene, dunque, le due posizioni in esame non erano realmente disponibili, né tantomeno prospettabili. 

Dunque i magistrati della Suprema Corte ampliano così il perimetro degli obblighi di correttezza e buona fede che devono informare il rapporto di lavoro anche nella fase del recesso. Non basta più, dunque, l’esame della situazione aziendale “cristallizzata” al momento del licenziamento, ed è questa la vera novità della sentenza. Che tuttavia non manca di suscitare perplessità sull’oggettività e la certezza del criterio del repêchage: perché i giudici non hanno dato rilievo sull’effettiva situazione aziendale, limitandosi ad evocare una situazione “astratta” e non effettivamente coincidente con la realtà di fatto?

Alla luce di questo pronunciamento, è ragionevole temere un’esplosione del contenzioso, con effetti ingovernabili specie nei settori, come è quello delle imprese di pulizie/ multiservizi/ servizi integrati, caratterizzate da altissima intensità di manodopera, da elevate flessibilità organizzativa e da frequenti situazioni di cambio appalto, perdita di commesse e conseguenti riorganizzazioni del servizio. Staremo a vedere.

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