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Mobbing, cosa rischia il datore di lavoro

Punite l’inerzia e la tolleranza del datore
Attenzione a tollerare comportamenti mobbizzanti o vessatori tra i vostri dipendenti: se ne è a conoscenza (e per dimostrarlo non c’è bisogno di reclami o atti formali, perché il giudice può stabilire come criterio il semplice decorso del tempo, o la modalità e ripetitività degli atti), il datore di lavoro ne risponde in solido con il soggetto che ha posto in essere il comportamento persecutorio. Anche il datore, dunque, viene condannato al risarcimento dei danni psico-fisici subiti dalla vittima.

A stabilirlo è una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 10037 del 15 maggio 2015, che fa riferimento al Codice Civile confermando la condanna “in solido” già comminata al datore in appello. Resta infatti fermo, secondo i giudici della Suprema Corte, il principio stabilito dall’articolo 2049 del Codice Civile sulle responsabilità di padroni e committenti. Senza entrare nel merito dell’episodio (riportiamo comunque il testo della sentenza), ci limitiamo a sottolineare che a nulla vale contrapporre il fatto che a esercitare il comportamento vessatorio sia un superiore della vittima: la mera condotta di tolleranza nei confronti del comportamento dei propri dirigenti o, in ogni caso, dei soggetti preposti all’organizzazione degli uffici è di per sé idonea e sufficiente a integrare la responsabilità in solido.

I sette punti a cui fare attenzione
Ecco, direttamente dalla sentenza, i sette parametri tassativi per individuare comportamenti di mobbing: ambiente: la vicenda conflittuale deve svolgersi sul posto di lavoro, anche se le conseguenti forme di disagio possono avere riflessi che si ripercuotono anche nella restante parte della vita quotidiana della vittima; durata: il conflitto deve essere in corso da almeno sei mesi o, nel caso del cosiddetto quick mobbing (attacchi frequenti ed intensi), tre; frequenza: le azioni ostili devono accadere almeno alcune volte al mese; tipo di azioni: le azioni subite devono appartenere ad almeno due di cinque specifiche categorie: attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare; isolamento sistematico; cambiamenti nelle mansioni lavorative; attacchi alla reputazione; violenze e/o minacce di violenza; dislivello tra gli antagonisti: la vittima deve trovarsi di una posizione costante di inferiorità, non necessariamente nella posizione gerarchica in azienda. Fasi successive: il conflitto si è incanalato nella direzione di una determinata vittima o gruppo di vittime, che cominciano a percepire l’inasprimento delle relazioni interpersonali e un crescente disagio; Intento persecutorio: nella vicenda deve essere riscontrabile un disegno vessatorio coerente e finalizzato, chiaramente ostile e negativo.

L’unico caso in cui il datore può chiamarsi fuori è quello in cui dimostri di essere completamente all’oscuro dei fatti, ma attenzione anche qui: il giudice, infatti, può presumere, sulla base del tempo trascorso, delle modalità messe in atto e del tipo/frequenza del comportamento, che all’interno di un’azienda sia impossibile che il datore non sia a conoscenza del fatto. Difficile, dunque, uscirne “indenni” per questa via. Il consiglio è di mettere in atto le corrette precauzioni affinché questo tipo di episodi non si verifichino e, nel caso sussistano concrete avvisaglie di mobbing o comportamenti al limite della vessazione, prendere subito gli opportuni provvedimenti.

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