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Mancato aggiornamento delle tabelle ministeriali: pulizie e multiservizi

di Domenico Gentile*

Sin dalle prime direttive europee in materia di appalti il legislatore italiano ha affidato al Ministero del Lavoro il compito di emanare annualmente, per ciascun settore merceologico, le tabelle che determinano il costo orario standard della manodopera da tenere in considerazione ai fini delle valutazioni della stazione appaltante sull’anomalia delle offerte.

La funzione delle tabelle ministeriali e i ritardi nella relativa approvazione

Anche il vigente codice, che accentua ai massimi livelli la tutela dei diritti sociali e del lavoro secondo “obiettivi e a valenza sociale”, che unitamente alla protezione dell’ambiente costituiscono il fulcro delle direttive di ultima generazione, affida tale compito al predetto Ministero, stabilendo che le stazioni appaltanti utilizzino le tabelle sul costo orario per la determinazione degli oneri della manodopera, da evidenziare separatamente nel bando (art. 95, comma 10-bis e 23 comma 16, d.lgs. n. 50/2016) e poi ancora in sede di verifica dell’anomalia (art. 97, comma 5, lett. d).

In base al costo del lavoro determinato nel bando dalla stazione appaltante, i concorrenti evidenziano a loro volta separatamente, in offerta, l’ammontare degli oneri della manodopera e della sicurezza. L’omissione della specificazione comporta l’esclusione dalla gara (Ad.Pl. n. 1, 2 e 3/2018). È pur vero che i concorrenti possono adattare il costo del lavoro stimato dall’amministrazione alla propria realtà aziendale, ma devono comunque tenere in considerazione che le tabelle ministeriali costituiscono il “parametro legislativo di riferimento”, sulle cui basi l’amministrazione effettua la verifica di congruità; cosicché, ogni scostamento dev’essere fondato sulla peculiare situazione aziendale documentalmente dimostrata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. n. 3694/2020).
Si tratta di una verifica essenziale e non derogabile, poiché in esito alla procedura di affidamento la stazione appaltante è chiamata in ogni caso al controllo di congruità del costo della manodopera dichiarato in offerta, a prescindere cioè dalla sussistenza di un sospetto di anomalia secondo i parametri matematici e aritmetici previsti dalla legge (tra le tante, cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, sent. n. 1818/2020).
Orbene, nonostante il codice vigente preveda – come detto – che le tabelle siano pubblicate annualmente a cura del Ministero del lavoro e del welfare, sulla base degli accordi sindacali conclusi tra le associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative, è sufficiente una verifica sul sito del Ministero del Lavoro per avvedersi di come la periodicità annuale non sia mai stata rispettata. Il che impatta notevolmente sulla congruità delle basi d’asta e, a cascata, sulle offerte dei concorrenti e sull’anomalia delle stesse sui costi “sensibili” della manodopera e della sicurezza (di cui le tabelle pure si occupano, determinando il costo della visita medica, della formazione ex d.lgs. n. 81/2008 e dei DPI).
In sostanza, così come nel settore dei lavori pubblici le Regioni sono spesso inadempimenti rispetto all’obbligo di pubblicare annualmente i listini dei prezzi dei principali materiali da costruzione, necessari ai fini dell’elaborazione delle basi d’asta, allo stesso modo nel settore dei servizi il ministero competente non determina annualmente il costo medio orario del lavoro e quello della sicurezza da utilizzare quale parametro di congruità delle basi d’asta e delle offerte. Il che ha ingenerato e ingenera, soprattutto in taluni settori, un elevato rischio di default delle imprese e di violazione dei diritti dei lavoratori, in violazione dei tanto conclamati ma troppo spesso mal perseguiti obiettivi a valenza sociale.

Il caso del CCNL Multiservizi

Nel comparto delle imprese di pulizia, servizi e multiservizi, ove operano migliaia di imprese di piccole, medie e grandi dimensioni, le più recenti tabelle ministeriali sono state pubblicate nel febbraio del 2014, mentre il CCNL di categoria è stato aggiornato nel giugno 2021, a partire dal successivo mese di luglio. L’aumento contrattuale è stato particolarmente significativo, dovendosi da un lato far fronte alla notevole perdita di potere d’acquisto della moneta dopo il primo anno di pandemia e, dall’altro, provvedere ad un rinnovo atteso da anni. Dopo una lunga contrattazione, le parti sociali hanno dunque determinato un aumento del costo annuo retribuzione per un importo pari a oltre il 9%, da corrispondere gradualmente nei cinque anni successivi.
Ad oggi le tabelle ministeriali non sono state tuttavia ancora pubblicate, e circolano delle bozze che si limitano a prendere in considerazione gli incrementi contrattuali dei primi due anni.
Dunque, il sistema langue a livello istituzionale e alla luce di ciò non si giustifica affatto la rigidità con la quale la giurisprudenza citata affronta la tematica relativa all’indicazione separata in offerta dei costi della manodopera e della sicurezza. Da quanto sin qui detto, è infatti evidente che numerose stazioni appaltanti, nel corso degli ultimi anni, hanno posto a base d’asta un costo del lavoro in sé incongruo, non rispettando i livelli minimi retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva di settore. Le tabelle non sono aggiornate e il costo medio orario che la stazione appaltante utilizza per il calcolo del costo del lavoro da evidenziare separatamente nel bando tiene così conto di una retribuzione base non aggiornata, inferiore dunque al livello minimo garantito dall’art. 36 della Costituzione. Su tale retribuzione minima sono poi calcolati gli oneri accessori e quelli riflessi, che sommati alla retribuzione base formano il divisore delle ore annue mediamente lavorate in base al quale è calcolato il costo medio. Il che significa, in concreto, che in tutti i bandi di gara pubblicati nel settore del multiservizi nel corso dell’ultimo anno evidenziavano una base d’asta incongrua, a partire dagli oneri della manodopera.

L’andamento degli appalti e il mancato riconoscimento dei compensi revisionali

La descritta disciplina, alla luce della prassi riscontrata circa il ritardo con cui le tabelle sono pubblicate, si pone d’ostacolo al perseguimento degli obiettivi a valenza sociale perseguiti dal legislatore interno e comunitario.
Si faccia il caso di un appalto di servizi di pulizia affidato a seguito di bando pubblicato nell’agosto del 2020, nell’ambito del quale, tra costo della manodopera indicato erroneamente, ribasso sulla base d’asta incongruamente riportata nel bando e verifiche – spesso troppo blande – d’anomalia, si pervenga ad un’aggiudicazione non propriamente in linea con il preminente interesse pubblico alla corretta esecuzione del servizio, nel pieno rispetto dei diritti sociali e del lavoro oggetto di specifica tutela.
In fase di avvio del servizio, le trattative sindacali dovranno tener conto del necessario rispetto della clausola sociale, dei vincoli derivanti dall’offerta e dal capitolato su numero addetti, monte ore e livelli retributivi, che configurano un elemento rigido di costo. A tanto si aggiunge infine l’imprevedibilità dell’incremento degli altri costi dell’appalto, come quelli per materie prime e dei materiali, che la crisi ha in alcuni casi addirittura raddoppiato (si pensi al costo della carta, o ai sempre crescenti oneri necessari per il rispetto dei Criteri ambientali minimi).
In questo contesto, lo strumento che il codice previgente prevedeva, ma che quello attuale ha inopportunamente limitato prevedendo l’esigenza di un’apposita clausola nel bando (il più delle volte non prevista dalle stazioni appaltanti, con miopi intenti di risparmio), era la revisione del prezzo contrattuale, ancorata ai costi stabiliti dall’Osservatorio Anac sui contratti pubblici, che a loro volta recepiscono gli incrementi determinati dall’Istat in base agli oneri della manodopera e agli incrementi del costo dei materiali, ovvero, molto più spesso, in riferimento all’aumento medio dei prezzi al consumo per famiglie e operai (cd. indice FOI). È vero che con l’aggravarsi della crisi il legislatore è intervenuto sulla disciplina della revisione prezzi, con riforme che nel settore dei servizi e delle forniture sono andate al traino di quelle approvate in quelli dei lavori; ma la mancata previsione di una disciplina transitoria, che rendesse applicabili le novità normative agli appalti in corso, ha determinato – per lo meno per servizi e forniture – situazioni di inefficienza. Cosicché, in casi come quello sopra esemplificato, l’impresa aggiudicataria avrebbe dovuto gestire l’appalto in perdita, ponendosi quale unica alternativa quella dell’inadempimento o della risoluzione del contratto per “eccessiva onerosità sopravvenuta” (art. 1664, comma 2, Codice civile).     

Possibili soluzioni a legislazione vigente

A rigore, a fronte degli incrementi dei costi imprevisti e imprevedibili che si sono verificati negli ultimi anni, a causa della pandemia e dei successivi eventi bellici, la revisione del prezzo contrattuale potrebbe essere ravvisata in termini di modifica del contratto in corso d’esecuzione ammessa dall’art. 106, commi 1, lett. c), nonché commi 2 e 7, per pervenirsi ad un riequilibrio del sinallagma che consenta di condurre a termine il rapporto contrattuale di durata pluriennale. In tal senso, la modifica del corrispettivo dovrebbe mantenere inalterato l’equilibrio economico iniziale del rapporto, in modo tale da non alterare le condizioni iniziali dell’affidamento. Essa non dovrebbe inoltre superare le percentuali stabilite dalle richiamate norme a carattere pubblicistico (i.e.: le soglie comunitarie e il 15% del valore dell’affidamento, ai sensi dell’art. 106, comma 2). Le stazioni appaltanti dovrebbero prediligere l’accoglimento di richieste in tal senso formulate, rispetto all’alternativa della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, contrastante con i principi di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa, sapendo che l’acquisizione di servizi comunque essenziali a seguito di nuova gara non potrebbe che avvenire agli stessi prezzi (attualizzati) di mercato. E dovrebbe prediligere soluzioni siffatte anche alla strada alternativa, molto spesso percorsa, dell’affidamento di “servizi complementari” con concomitante fissazione di nuovi prezzi, che consentano il recupero delle risorse necessarie all’esecuzione. D’altra parte, il decreto semplificazioni, proprio per accelerare lo sviluppo degli investimenti pubblici, ha limitato al massimo grado la responsabilità contabile degli amministratori, prevedendo un periodo transitorio nel corso del quale questi rispondono innanzi la Corte dei Conti soltanto per dolo, e non più per colpa grave. Cosicché, neppure potrebbe porsi un problema di responsabilità in caso di riconoscimento della revisione del prezzo a seguito di modifica contrattuale (ammessa).

Prospettive di riforma

Il descritto quadro normativo è comunque destinato a mutare con la riforma del Codice dei contratti pubblici, in corso di approvazione alla Camera. Invero la legge delega già approvata al Senato prevedeva, nella sua versione originaria, la reintroduzione dell’obbligatorietà della clausola di revisione prezzi in tutti i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, subordinandone tuttavia l’operatività “al verificarsi di particolari condizioni di natura oggettiva e non prevedibili al momento della formulazione dell’offerta”. Il rischio che ne restassero fuori gli squilibri del corrispettivo dovuti all’incremento del costo del lavoro, a seguito del rinnovo del CCNL di categoria (che è un evento in sé non imprevedibile, e anzi del tutto prevedibile nell’an, sebbene non nel quantum,  dal momento che all’atto della partecipazione alla gara è in genere nota la data di scadenza del CCNL ma non l’ammontare dell’incremento) ha indotto le associazioni di parte datoriale e alcuni stakeholders (e, in particolare, la FNIP-Confcommercio) a proporre un emendamento, poi approvato dalla competente commissione della Camera dei Deputati, e ora presente nel testo rimesso all’Aula, che contempla la “previsione dell’obbligo per le stazioni appaltanti di inserire nei bandi di gara, negli avvisi e inviti, in relazione alle diverse tipologie di contratti pubblici, un regime obbligatorio di revisione dei prezzi al verificarsi di particolari condizioni di natura oggettiva e non prevedibili al momento della formulazione dell’offerta, compreso il costo derivante dal rinnovo dei CCNL nazionali sottoscritti dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicabili in relazione all’oggetto dell’appalto e delle prestazioni da eseguire anche in maniera prevalente stabilendo che gli eventuali oneri derivanti dal suddetto meccanismo di revisione dei prezzi siano a valere sulle risorse disponibili del quadro economico degli interventi e su eventuali altre risorse disponibili per la stazione appaltante da utilizzare nel rispetto delle procedure contabili di spesa”.

Il riferimento è dunque al costo del lavoro “derivante” dall’applicazione del CCNL e non a quello “coincidente” con esso. Con la conseguenza che in sede di attuazione della delega si dovrà tener conto delle tabelle ministeriali, di cui si è detto all’inizio, e non dei minimi retributivi, il cui aggiornamento in sede di contrattazione comporta – come pure visto – in automatico l’incremento delle altre voci di costo che compongono la “retribuzione globale di fatto” (e, in definitiva, del cd. Cuneo fiscale, che in Italia è tra i più alti d’Europa).

*Studio Legale Malinconico & Gentile

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