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Ingiurie e minacce a un superiore, scatta il licenziamento

Affrontiamo oggi un caso non infrequente nell’attività quotidiana delle imprese di pulizia/ multiservizi/ servizi integrati. Un settore, lo sappiamo, ad altissima intensità di manodopera, in cui il fattore umano, e i rapporti fra i lavoratori, rivestono un’importanza cruciale nel bene e, purtroppo, nel male. Parliamo di ingiurie, tra colleghi o, come in questo caso specifico, rivolte verso un superiore. Possono giustificare il licenziamento? Secondo la Cassazione sì, se ricorrono determinate condizioni. Ma andiamo con ordine.

La Suprema Corte, con Ordinanza n. 4320 del 19 febbraio scorso, ha convalidato il recesso intimato da un’impresa per “grave insubordinazione” a una dipendente che aveva proferito insulti pesanti e minacce, sul posto di lavoro, nei confronti di una sovraordinata, salvo poi vedersi inizialmente reintegrare in servizio -con tanto di indennizzo- dal tribunale del lavoro, con pronuncia confermata in appello.

Secondo i giudici di merito, infatti, la condotta della lavoratrice non aveva rilevanza intimidatoria, anche alla luce dell’insussistenza di precedenti di natura violenta. Posta dunque la sussumibilità del contegno della dipendente nella fattispecie di “insubordinazione verso i superiori”, il collegio optava per l’applicazione della contrattazione collettiva di specie, che prevede una sanzione conservativa laddove non ricorra l’elemento della “gravità”, indispensabile per poter validare un licenziamento di natura disciplinare.

Proprio sul punto della “gravità” si è concentrata la riflessione degli Ermellini, che hanno ritenuto fondate le doglianze datoriali, rilevando che, in materia disciplinare, il procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, tipizzata nella contrattazione, non consente una tale operazione logica quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi, estranei e aggravanti, rispetto alla previsione contrattuale: insomma, al di là di quanto previsto dalla contrattazione, resta sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di ledere il rapporto fiduciario in modo tale da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto lavorativo.

Ed è questo il caso, secondo i giudici di legittimità: la frase pronunciata, infatti, non solo costituiva espressione di insubordinazione ad un superiore gerarchico, ma si accompagnava ad una minaccia e ad una ingiuria. In relazione all’attitudine intimidatoria, per risalente giurisprudenza non è nemmeno necessario che la vittima si senta effettivamente intimidita, né tantomeno che sussistano precedenti. E’ infatti sufficiente che la condotta posta in essere dall’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo.

Non da ultimo rileva il ruolo del datore di lavoro, che, stando all’art. 2087 del codice civile, è titolare di una posizione “di garanzia”, essendo investito di precisi obblighi di protezione in ordine alla personalità morale dei propri dipendenti. Questi ultimi, evidentemente, dovranno essere salvaguardati anche dalle aggressioni messe in atto da parte di colleghi alla dignità e alla salute psicofisica, a tutela loro nonché del benessere complessivo e della serenità del clima aziendale.

Link Ord Cass 4320/24 (tratto da Avv. Michele Fatigato)

 

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