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Contrattazione collettiva, interviene la Cassazione

Altro colpo giurisprudenziale alla contrattazione collettiva. Torniamo a parlare di retribuzione equa, sufficiente e proporzionale secondo il dettato dell’art. 36 della Costituzione. Una questione plurimamente affrontata, in tempi recenti, dalla magistratura ordinaria e da quella amministrativa. Come sappiamo bene, in alternativa al salario minimo stabilito per legge un ruolo fondamentale -a dirlo è l’Europa- è quello giocato dalla contrattazione collettiva. 

Attenzione però alla recente giurisprudenza della Cassazione, che fa traballare il ruolo di “depositario salariale” dei contratti collettivi. Illuminanti, solo per citare alcune delle ultime, sono l’ordinanza della Suprema Corte n. 27722 del 2 ottobre 2023, che si pronuncia su una questione relativa a un ricalcolo pensionistico, ma soprattutto la più recente sentenza 2573 del 22 gennaio di quest’anno, che si inquadra nella piaga del “caporalato”.

Attraverso tali pronunce la Cassazione fa incidentalmente notare, fissando un principio importante, che la retribuzione fissata dalle parti sociali nei contratti collettivi può essere messa in discussione allorquando, in concreto, il livello salariale previsto non risulti conforme ai parametri di proporzionalità e sufficienza di derivazione costituzionale.

D’altra parte abbiamo visto fin troppo spesso, negli ultimi mesi, come diversi contratti collettivi, sottoscritti anche dalle rappresentanze comparativamente maggiormente rappresentative, prevedessero nero su bianco stipendi al di sotto della soglia della povertà, sistematicamente stigmatizzati dai giudici con tanto di accoglimento delle pretese risarcitorie.

Sono dunque i magistrati, per la Suprema Corte, i soggetti legittimati in ultimo a verificare, secondo una serie di parametri che, certo, tengono conto anche della contrattazione di categoria (ma non soltanto), se un trattamento retributivo risponda o meno ai principi di equità costituzionalmente sanciti.

Nella citata sentenza della Sezione Penale n. 2573/24, ad esempio, si affronta il caso di lavoratori pagati 3 euro/ora, in “macroscopica sproporzione con la retribuzione prevista dal Ccnl di categoria”. Tuttavia la Corte in questo caso si è spinta ben oltre, affermando che non sempre la retribuzione da prendere a riferimento coincide con quella fissata dalle intese collettive, dato che “l’autonomia delle parti sociali non può derogare al principio della retribuzione quale soglia minima di dignità umana e sociale”.

Se interpretata estensivamente, la questione riguarda anche da una parte il legislatore, in vista della possibile fissazione ex lege di un minimo salariale, e dall’altra le stesse imprese e datori di lavoro, responsabili di valutare caso per caso se la retribuzione in essere, pur avallata dal Contratto di categoria, sia effettivamente sufficiente, proporzionale e dignitosa. 

Link Sent. Cass. 2573/24

Link Ordinanza Cass. 27722/23

Link Costituzione art. 36

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