HomeNewsletterCondanna penale, è giusta causa di licenziamento?

Condanna penale, è giusta causa di licenziamento?

Ecco un caso molto frequente nella vita quotidiana delle imprese di pulizia/ multiservizi/ servizi integrati. Il datore scopre che un dipendente è stato in passato condannato per reati penali anche gravi, e ritiene ci siano gli estremi per licenziarlo.

E’ un comportamento corretto e legittimo? C’è la “giusta causa”? No, stando alla recente ordinanza della Cassazione n. 4458 del 20 febbraio 2024. Il caso è relativo a un dipendente di un’impresa che svolge attività di raccolta e smaltimento di rsu (rifiuti solidi urbani) anche con la Pubblica Amministrazione: ebbene, la società veniva a conoscenza del fatto che il dipendente, in passato (i fatti risalivano al periodo tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta) era stato condannato per associazione mafiosa. Tanto bastava, secondo l’impresa, per minare alla radice “l’elemento fiduciario necessariamente sotteso al rapporto di lavoro, anche in considerazione della natura e della qualità del rapporto, dalla particolare attività svolta dalla Società, gerente appalti con la pubblica amministrazione”.

Una tesi non condivisa però né dai giudici di prime cure, né dalla stessa Cassazione: anche se quasi tutti i contratti collettivi inseriscono tra gli illeciti disciplinari l’aver riportato una condanna penale per determinati fatti/reati non connessi con lo svolgimento del rapporto di lavoro, tali previsioni possono avere rilevanza disciplinare solo se la condotta criminale e la condanna avvengono durante il rapporto stesso.

Posto dunque che nessuna sanzione disciplinare può essere irrogata per fatti commessi prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro, e che comunque spetta al giudice valutare se la particolare natura dei fatti sia atta a mettere in pericolo il rapporto fiduciario fra datore e dipendente, “nella specie i fatti addebitati non solo sono assai risalenti nel tempo (in quanto commessi tra il 1989 e il 1994), ma la stessa irrevocabilità della sentenza di condanna è precedente (2009) alla instaurazione del rapporto di lavoro; inoltre, la sentenza impugnata non manca di evidenziare come la “condanna, pur essendo teoricamente infamante, non ha però inciso sul rapporto di lavoro in atto, né messo in pericolo il corretto adempimento delle prestazioni future, né compromesso l’affidamento del datore di lavoro sui futuri adempimenti”. Si deve anche considerare il fatto che la particolare mansione del dipendente non lo pone nella posizione di esercitare, nei confronti di altri dipendenti, alcun potere gerarchico, né di avere ruoli decisionali in seno all’impresa. 

L’azienda dunque, a conferma del giudizio di merito, si è vista condannata alla “reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del recesso fino a quello dell’effettiva reintegra”.

Link Ordinanza Cass. n 4458/24

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