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L’abbigliamento da lavoro nella società complessa

(tratto da “GSA” n. 5, maggio 2010)


La  ricerca “Dalle tute blu all’usa e getta”, fa luce sullo scenario giuridico e sociologico in materia di abbigliamento sul lavoro. In un contesto complesso come quello lavorativo, l’abbigliamento non è certo un aspetto secondario, ma è specchio delle rinnovate dinamiche sociali.

 

Cosa indossano gli italiani sui luoghi di lavoro? Sembra cosa da poco, o tutt’al più argomento scontato. In fondo, l’abbigliamento da lavoro ha sempre seguito (a buon diritto, del resto) i criteri della funzionalità prima che quelli della moda, e raramente ha subito le tendenze del momento. Eppure, guardando un po’ più a fondo, si scoprono cose a cui non si pensa tanto spesso: ad esempio che la questione dell’abbigliamento sui luoghi di lavoro riflette, in modo emblematico, le complesse dinamiche di una società -la nostra- giorno dopo giorno più disorientante e articolata.

Ad affermarlo è Maura Ranieri dell’Università di Catanzaro, che ha da poco pubblicato, per il Centro Studi di Diritto del Lavoro Europeo Massimo D’Antona, dell’Università degli Studi di Catania (Facoltà di Giurisprudenza), la ricerca “L’abbigliamento nei luoghi di lavoro: dalla tuta blu al velo usa e getta”.

 

Abbigliamento sul lavoro: specchio di una società complessa

E’ interessante l’assunto di fondo: se è vero -come è vero- che l’abbigliamento personale e, in generale, l’aspetto e l’immagine, costituiscono un biglietto da visita fondamentale nel nostro apparire sociale, ciò vale tanto più nei luoghi lavorativi, microcosmi contraddistinti da un’intrinseca pluralità riconducibile alla convivenza, all’incontro (a volte scontro) di pluralità di interessi, a conflitti gerarchici spesso inevitabili. Ma anche a dinamiche sociali ancora più complesse, che vanno dal campo affettivo a quello economico, e che sempre si intrecciano dando luogo a sistemi complessi. Non solo, aggiungiamo noi: l’abbigliamento spesso ci permette di riconoscere a prima vista anche il tipo di azienda in cui si entra: anche un occhio poco allenato riconoscerà immediatamente un’azienda “serious” (dipendenti in cravattaia, giacche perfette, camicie rigorosamente chiare e senza troppe fantasie) da una società più “funny” (magliette e felpe colorate, scarpe da ginnastica, look sportivo e a volte eccentrico). E chi non ha notato il diffondersi, anche da noi, dell’uso anglosassone del “free friday”, vale a dire del venerdì ad abbigliamento libero?

 

L’abbigliamento nell’impresa di servizi: fondamentale presentarsi bene

Questo parlando di uffici: ma anche gli operatori delle imprese di servizi hanno i loro punti-fermi: una tuta di un certo colore, con un marchio ben riconoscibile, crea spirito di squadra, consolida la percezione dell’appartenenza al gruppo. Ma non solo: è chiaro, non è neppure il caso di dirlo, che un’impresa che va a pulire non deve presentarsi sporca, in disordine e sciatta, a partire dall’abbigliamento degli operatori. E così dal piano più puramente sociologico si passa a quello, molto più immediato ma non meno rilevante, del rapporto fra impresa e cliente: chi si affiderebbe a un’impresa di pulizie i cui dipendenti arrivano sporchi, in disordine, disomogenei nell’abbigliamento?

 

Fra obblighi e libertà personale

Si tratta di un campo di indagine sterminato, insomma, che ha reso necessario un lavoro di selezione dei temi da trattare. In particolare, la ricercatrice ha approfondito la relazione tra abbigliamento e tipologia del rapporto lavorativo, analizzando l’impatto che le scelte o gli obblighi inerenti a questo profilo della sfera personale dell’individuo hanno sul rapporto di lavoro, sia da parte del lavoratore, sia da parte del datore, con riferimento specifico alla libertà di abbigliamento dei lavoratori all’interno dei luoghi di produzione.

Un tema delicato, in cui si fondono doveri e obblighi connessi al ruolo e libertà personale. Un argomento tanto più sentito in un comparto come il nostro, in cui gli operatori molto spesso provengono da contesti culturali e religiosi eterogenei, ciascuno con le sue tradizioni, i suoi dettami, il suo concetto di pudore e di moralità. E anche, perché non dirlo, le sue abitudini igieniche.

 

Multiculturalità, individualismo: due dinamiche che dovrebbero coesistere

Le riflessioni più importanti, insomma, sono quelle relative al rapporto fra abbigliamento sui luoghi di lavoro e multiculturalismo sociale, fra identità culturale, libertà individuali e obblighi lavorativi. Su larga scala, si può dire, si scontrano due tendenze contrastanti della società contemporanea, che si rispecchiano anche in un campo in apparenza marginale come quello di come ci si veste al lavoro: da un lato si intravedono concetti fumosi come quelli di multiculturalismo e identità, dall’altro si va sempre più rapidi verso un’ideologia fortemente individualistica, in cui i diritti (e il benessere) del singolo sono assunti (e assurti) a perno intorno a cui deve ruotare un intero sistema di vita. Ciò detto, come non coinvolgere, nella ricerca, anche gli aspetti più squisitamente giuridici? Si legge nell’introduzione: “L’attuale fase di personalizzazione del soggetto che investe l’ordinamento giuridico sembra manifestarsi sempre più insistentemente nell’ambito del diritto del lavoro sotto forma di interessi e rivendicazioni del lavoratore concreto, in “carne ed ossa”.

 

Il diritto del lavoro: quanto è cambiato nell’ultimo trentennio

Da una trentina d’anni, tanti principi di diritto del lavoro in questo senso sono radicalmente mutati. Sotto il profilo della tipologia contrattuale, il contratto di lavoro subordinato si è confrontato dapprima con le diverse articolazioni del tempo di lavoro, e in seguito, in termini decisamente più invasivi, con il proliferare di schemi contrattuali che ne hanno minato alle fondamenta la centralità. In termini più concreti: in un contesto come quello italiano, negli ultimi anni e a causa delle dinamiche di diversificazione etnico-culturale cui stiamo assistendo, si è andato via via smontando il prototipo del lavoratore maschio, bianco, cattolico ed eterosessuale (una sorta di “wasp” di casa nostra, insomma…). Tutto ciò si cala poi in un’ottica di superamento del sistema produttivo taylorista e fordista, e dal mutamento del modello di organizzazione del lavoro. In senso ancora più ampio, si è arrivati a comprendere come un rapporto di lavoro non coinvolga soltanto la sfera dell’avere, ma anche -e forse ancor prima- quella dell’essere dell’individuo: un essere che non è più solamente coinvolto in un contratto che subisce, ma che è al contrario destinato a plasmare il rapporto che ne deriva in modo sempre più consistente.

 

La situazione italiana

Il libro, dunque, si muove sul crinale, piuttosto affascinante, tra sapere giuridico, e istanze sociologiche, sullo sfondo di una contemporaneità che si presenta complessa e spesso contraddittoria, a partire dai rapporti lavorativi. Si apre dunque un campo di indagine fino ad ora, almeno in Italia, eccessivamente trascurato.

Dopo la definizione del campo di interesse, l’autrice passa a delimitare le nozioni di “luogo di lavoro” e di “abbigliamento”, valutando il problema nei suoi connotati giuridici. L’ultima parte del secondo capitolo (il primo è introduttivo) è dedicata all’analisi della situazione italiana.

Dalla Costituzione al Codice Civile: i limiti al potere datoriale

Ma il vero cuore del lavoro è il capitolo terzo, in cui si affronta il tema (scottante) dei limiti generali al potere datoriale. Questi ultimi sono sanciti, oltre che dalle singole piattaforme contrattuali, dall’articolo 2087 del Codice civile, sulla tutela della personalità morale: secondo quanto previsto dal 2007, l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Vi sono poi diritti costituzionali che partono dall’articolo 41della Carta costituzionale: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. E proprio all’interpretazione dell’articolo 41 è dedicata la quarta parte del testo, in cui si auspica una valutazione “bilanciata” caso per caso.

Qualche auspicio…

Il capitolo 5 traccia un bilancio conclusivo, ed esprime gli auspici per il futuro: nel campo del diritto ad un’elasticità diacronica dovrebbe affiancarsi una flessibilità sincronica per dare voce a culture e valori compresenti nell’organizzazione sociale. E’ necessario che si recuperi quel senso di comunità negli ultimi tempi perduto, ma ancora vivo e riconoscibile nell’impianto costituzionale, che, spiega l’autrice, protegge ancora “quello sforzo comune di dettare, attraverso un compromesso, un disegno sociale e politico generale”.

 

Umberto Marchi

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