Homefacility managementGare pubbliche di servizi: verso un “indice reputazionale” per le imprese?

Gare pubbliche di servizi: verso un “indice reputazionale” per le imprese?

Forma contro sostanza?

Sebbene le regole, per quanto si è detto, siano assolutamente imprescindibili per il funzionamento del sistema in questione, è chiaro che non dovrebbe mai perdersi di vista la finalità sostanziale che la regola formale è diretta a perseguire.

In altre parole, l’applicazione delle regole formali ha senso in quanto serve comunque a garantire un risultato sostanziale e non è mai – o non dovrebbe esserlo – fine a se stessa.

Sotto questo profilo, va ricordato che il diritto comunitario ha un approccio molto più orientato alla sostanza che alla forma rispetto a quello italiano.

Tale diversa inclinazione alla sostanza piuttosto che alla forma appare evidente nella declinazione pratica di talune regole.

A titolo esemplificativo, per quanto riguarda l’istituto dell’avvalimento, il legislatore comunitario lascia completa libertà in ordine alle prove concrete che devono essere fornite alla stazione appaltante per dimostrare l’effettiva disponibilità, da parte del concorrente “ausiliato” dei mezzi e requisiti dell’impresa “ausiliaria”, di cui il primo è carente. Il legislatore italiano, invece, elenca tassativamente le dichiarazioni e i documenti da produrre, ivi compreso il “contratto di avvalimento”, del quale, però, non chiarisce affatto né i contenuti, né la natura, né tantomeno i requisiti minimi. Ecco, quindi, creata una regola formale – la produzione di un “contratto di avvalimento” – svuotata tuttavia di significato sostanziale, perché non viene chiarito quali siano gli elementi che rendono tale contratto realmente efficace sotto il profilo della messa a disposizione del concorrente ausiliato di ciò di cui quest’ultimo ha bisogno per rendere la prestazione oggetto di affidamento.

Altro esempio illuminante in materia è il caso delle specifiche tecniche, per le quali vige il c.d. “principio di equivalenza”, di matrice comunitaria, che consiste nella facoltà riconosciuta agli operatori economici – e nel correlativo divieto di esclusione imposto alle stazioni appaltanti – di presentare delle offerte per l’aggiudicazione di contratti pubblici dimostrando con ogni mezzo ritenuto idoneo che i materiali, i prodotti e/o i processi proposti sono equivalenti a quelli descritti nei documenti di gara. Il legislatore italiano ha imposto anche in questo caso una regola formale sconosciuta al diritto comunitario, ovvero l’obbligo per il concorrente che intenda valersi del principio di equivalenza di segnalarlo con una “separata dichiarazione” da allegare all’offerta. Ma anche in questo caso non si comprende esattamente quale sia la portata e il contenuto della dichiarazione e quindi il senso della regola, il cui mancato rilascio, tuttavia, potrebbe condurre all’esclusione di potenziali offerenti.

 

 

Qualificazione delle imprese e valutazione delle offerte

Un principio fondamentale del diritto comunitario è la completa separazione e l’assoluta autonomia tra la fase di qualificazione delle imprese e quella di valutazione delle offerte.

Questa regola non costituisce un vuoto formalismo, ma risponde ad un’esigenza di carattere sostanziale e di tipo “pro-concorrenziale” avvertita a livello europeo.

Ad avviso del legislatore comunitario i requisiti di carattere soggettivo – ovvero le esperienze pregresse, gli attestati, le certificazioni, ecc. – servono unicamente a determinare se un concorrente possa essere ammesso o meno a presentare un’offerta, se abbia, cioè, una qualificazione sufficiente allo svolgimento della prestazione richiesta.

Una volta esaurita tale valutazione, che si conclude con la decisione di ammettere o escludere un concorrente dalla gara, i requisiti soggettivi, ad avviso del legislatore comunitario, devono perdere rilievo, perché la competizione si svolga unicamente sul contenuto dell’offerta, ovvero sugli elementi di carattere oggettivo della prestazione (il prezzo, la qualità, la durata, ecc.).

Se durante la valutazione dell’offerta venissero considerati elementi di natura soggettiva, la competizione non sarebbe più imparziale, ma vi sarebbe una sorta di contaminazione delle due fasi e gli effetti della prima finirebbero per riverberarsi sulla seconda. In altre parole, due offerte oggettivamente di pari qualità e convenienza verrebbero valutate diversamente in ragione dell’identità del soggetto dal quale provengono. Ciò sarebbe contrario alle finalità che ispirano il legislatore comunitario (parità di trattamento degli operatori, tutela della concorrenza, garanzia di libera circolazione di beni e servizi).

E’ bene rammentare che gli Stati membri sono tenuti ad osservare i principi fondamentali del Trattato istitutivo dell’Unione Europea (non discriminazione in base alla nazionalità, trasparenza, parità di trattamento) anche per gli appalti di importo inferiore alla soglia comunitaria e sono obbligati ad applicare le regole degli appalti di rilevanza comunitaria anche agli appalti di importo inferiore alla soglia di interesse europeo, nel caso in cui gli stessi abbiano comunque un interesse “trasfrontaliero”.

Ne consegue che se la regola della separazione tra elementi di selezione qualitativa dei concorrenti ed criteri di aggiudicazione fosse ritenuta come posta a tutela della parità di trattamento tra gli operatori, sarebbe comunque obbligatoria anche per gli appalti di importo inferiore alla soglia comunitaria.

 

 

La proposta di un “indice reputazionale”

Le stazioni appaltanti pubbliche lamentano, in generale, il fatto di essere obbligate all’osservanza di una serie di regole che – essendo per la parte più significativa di derivazione comunitaria e rispondenti ad esigenze di tutela delle imprese più che delle amministrazioni procedenti – portano a dover aggiudicare i contratti ad imprese nei cui confronti non si nutre fiducia, oppure con le quali si è reduci da precedenti esperienze negoziali che non sono state comunque ritenute soddisfacenti.

È in questo quadro che recentemente si è andata sviluppando l’ipotesi di introdurre, nel meccanismo di aggiudicazione delle gare di appalto, un “indice reputazionale” che dovrebbe avere la funzione di premiare, con l’attribuzione di uno specifico punteggio da applicare in sede di valutazione dell’offerta, le imprese che meglio si sono comportate nella gestione dei pregressi rapporti contrattuali con la stazione appaltante.

Tra le prime stazioni proponenti e possibili sperimentatrici dell’“indice reputazionale” per gli appalti sotto soglia comunitaria è ACEA spa – la società a capitale prevalentemente pubblico (Comune di Roma 51%) che si occupa si occupa della gestione di servizi energetici, ambientali e idrici – la quale ha lanciato negli scorsi mesi il proprio progetto “Vendor Rating”, con la collaborazione dell’Università Tor Vergata di Roma.

In questa direzione, secondo quanto illustrato anche dalla stampa tecnica di settore1, ACEA avrebbe avviato una campagna di ispezioni nei propri cantieri a partire dal 2007, attribuendo alle imprese impegnate negli appalti una serie di giudizi di conformità o non conformità alle obbligazioni contrattuali e ad altri parametri di tipo oggettivo. Ciò avrebbe condotto all’elaborazione di una banca dati degli appaltatori con individuazione di un voto tra 0 e 100 che dovrebbe misurare sinteticamente l’“affidabilità” delle controparti private.

Nelle prossime gare di ACEA spa, l’aggiudicazione dei contratti dovrebbe avvenire in funzione dell’“offerta economicamente più vantaggiosa” misurata in base all’elemento “prezzo”, che peserebbe 75 punti su 100, e all’“indice reputazionale”, in ragione del quale verrebbero assegnati i residui 25 punti.

Pur se le esigenze di fondo che tale innovativo meccanismo aspira a soddisfare sono certamente meritevoli di considerazione, lo strumento individuato lascia fortemente perplessi per molteplici ordini di ragioni.

 

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