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Quel debito pubblico che strangola le imprese

(tratto da “GSA” n.10, ottobre 2010)

Dal convegno organizzato da Taiis e sindacati arrivano le proposte per risolvere il problema del debito pubblico in crescita e dei ritardi nei pagamenti alle imprese, e far finalmente ripartire l’Italia.

Di solito la matematica è una scienza esatta, ma ci sono domande – nel campo degli appalti pubblici –  a cui si scopre che dare una risposta definita è cosa alquanto difficile. Come alla seguente questione: a quanto ammontano esattamente i debiti che le pubbliche amministrazioni hanno a tutt’oggi nei confronti delle imprese? Si tratta di un debito di 37 miliardi, come suggerisce il Ministro dell’economia Giulio Tremonti, o 60-70 miliardi come stimato dalle organizzazioni imprenditoriali? Nel mezzo di queste due cifre si gioca una partita difficilissima per le imprese, che rischiano in alcuni casi la bancarotta aspettando per anni di incassare soldi che non arrivano mai.

Proprio il tema dei ritardi nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni è stato al centro del convegno “I debiti delle amministrazioni pubbliche verso le imprese: quali dimensioni, quale soluzione – La proposta del Taiis e delle organizzazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil ed il rapporto della Fondazione Astrid”, che si è svolta a Roma lo scorso 15 settembre con due partner d’eccezione:  EBNVP (Ente Bilaterale Nazionale Vigilanza Privata) e ONBSI (Organismo Nazionale Bilaterale Servizi Integrati).

 

Tra i relatori: Carmelo Caravella (Filcams/Cgil), Giuseppe Gherardelli, Taiis, Fise/Confindustria, Giorgio Macciotta, Coordinatore del gruppo di ricerca Fondazione Astrid, l’On. Francesco De Angelis, Relatore alla proposta di Direttiva contro i ritardi di pagamento della Commissione Industria del Parlamento Europeo, Silvia Scozzese, Responsabile della Finanza Locale Anci e Direttore Scientifico Ifel e Franco Tumino, Taiis, Legacoop Servizi.

 

Il rapporto ASTRID

 

Punto forte della giornata è stato il rapporto di Astrid, nota Fondazione di ricerca sulla Pubblica Amministrazione presieduta da Franco Bassanini, che ha cercato di scoprire le cause e l’evoluzione del fenomeno dell’indebitamento statale analizzando nella storia moderna come si sia arrivati a creare un simile cumulo di pendenze e quali possano essere, alla luce degli ultimi avvenimenti e regolamenti normativi, le soluzioni per un generale riassesto del sistema.

 

Il tema dell’accumulo di residui di bilancio e di giacenze sui conti di Tesoreria (che nella fase attuale ha come fenomeno rilevante quello dei ritardi della Pubblica Amministrazione nei pagamenti dei debiti commerciali) – ha spiegato il relatore Giorgio Macciotta – non è nuovo.  Esso discende sia dalle stesse regole, oggettivamente vischiose, sia dalle colpe della politica che ha commesso spesso errori nel controllo e nella regolamentazione nel controllo dei concreti della spesa pubblica e nel raccordo tra decisione politico-parlamentare e azione politico-amministrativa del Governo”.

 

La genesi del debito

 

La storia dell’indebitamento comincia nei primi anni ’70, quando si è iniziato dare il via al primo rilevante trasferimento di competenze agli enti locali (senza fornire però a nessuno di tali livelli di governo l’attribuzione di fonti di finanziamento adeguate a far fronte a queste nuove competenze) creando così una moltiplicazione dei centri di spesa che ha dovuto essere garantita da trasferimenti a carico dello Stato. “Si trattava  – si legge – di una gestione articolata su quattro livelli che consentivano di sommare agli scarti fisiologici quelli patologici, ovvero, da un lato, la scarsa capacità di spesa di alcune amministrazioni e, dall’altro lato, l’esplicita scelta del Governo di operare, sfruttando i vari passaggi (dalla competenza alla cassa, al versamento e al prelevamento effettivo dalla Tesoreria), la riduzione della possibilità di trasformare le risorse disponibili in pagamenti effettivi, con scelte politiche discrezionali, in funzione del contenimento dell’indebitamento netto della Pubblica Amministrazione”.

 

Gli effetti nefasti di questo cambiamento si manifestano nel Paese in pochissimi anni: se all’inizio degli anni ’70  (quando ogni provvedimento veniva finanziato con una specifica emissione di titoli di debito pubblico per finanziarne lo svolgimento) i pagamenti dei ministeri variavano in media tra 77% dei ministeri economici ed il 96% dei Ministeri militari, già negli anni ’80 si assiste ad un’esplosione del debito pubblico, che arriva nel 1980 sino al 41,4% del PIL (45,3% soltanto un anno più tardi) mentre le entrate si attestano al 34,4% (valore uguale a quello dell’anno successivo). Vano è il tentativo di tamponare le falle con decreti legge ad hoc, che non riescono a frenare le “esuberanze” dei ministeri e delle amministrazioni locali.

 

Finanziaria e DPEF, tentativi falliti

 

Nel 1978 nasce il primo tentativo di porre un argine alla crescita con il varo della prima “Finanziaria” (legge 468/78), che mirava a registrare in  un unico documento tutte le previsioni di spesa da sottoporre a voto e mantenere così sotto controllo il sistema. Ma la politica ci mette del suo, infilando all’interno della legge una miriade di provvedimenti micro settoriali che ottengono alla fine l’effetto inverso, favorendo un’ulteriore divaricazione tra stanziamenti di competenza ed autorizzazioni di cassa e causando la crescita anomala dei residui di bilancio e delle giacenze sui conti di tesoreria.

 

Visto il fallimento dello strumento “Finanziaria”, ci si riprova 10 anni più tardi con la legge 362/1988, che introduce il primo DPEF (Documento di Previsione Economica e Finanziaria). Nonostante paletti più stretti, anche questo tentativo di “riorganizzazione” fallisce: l’esame del Bilancio infatti è spesso troppo lungo, e l’urgenza di introdurre misure correttive del disavanzo pubblico costringe a ricorrere a tantissimi disegni di legge che riportano alla stessa situazione delle precedenti finanziarie che si sarebbero volute superare.

 

Tutto questo mentre continua imperterrito lo spostamento di risorse agli enti locali di molteplici competenze (compresa quella cruciale del governo della sanità pubblica) senza che a tali operazioni si accompagni una dotazione di risorse che non derivassero dai trasferimenti a carico del bilancio dello Stato: il debito lievita, le giacenze crescono, e la situazione diventa mano a mano sempre più difficile da governare.

 

Gli anni ’90 e la situazione attuale

 

Si giunge nel frattempo agli anni ’90 ed al fatidico traguardo del trattato di Maastricht, che comporta per gli enti locali la creazione del Patto di Stabilità per vincolarne le spese ed arrestare l’indebitamento. Ma ci sono spese, come gli stipendi dei lavoratori o i servizi sanitari, che non possono non essere erogati: per ottemperare ai propri doveri le amministrazioni si inventano così vari strumenti di finanza “creativa” (dai famosi derivati all’occultamento del debito mediante strattagemmi contabili) e ritardano per quanto possibile il pagamento dei servizi non essenziali giungendo alla situazione che si osserva ancora oggi.

 

La valutazione quantitativa della situazione attuale – afferma il rapporto – non è facile. Le motivazioni dell’occultamento di una simile forma di indebitamento sono molteplici. Si va dalla volontà di occultare un ulteriore peggioramento della dimensione complessiva del debito pubblico del Paese alla scelta di molte istituzioni decentrate di non evidenziare una tale tipologia di obbligazioni per poter operare, con le risorse di bilancio disponibili, scelte ritenute più paganti sul terreno della soddisfazione dei cittadini e, in sintesi, del loro consenso”.

 

Le operazioni sono rese più difficili dal fatto che lo stesso debito sia diventato negli anni un’immensa nebulosa multi frammentata, rendendo un’impresa solo cercare di definirne i confini. Un’indagine della Corte dei Conti sui debiti delle ASL e delle aziende ospedaliere al 31 dicembre 2006, stimata in proiezione fino al 2010, stima ad esempio per il solo comparto sanitario un’esposizione che supererebbe i 50 miliardi di euro. Ipotizzando per il complesso delle altre amministrazioni pubbliche una esposizione pari al 40% di quella degli enti sanitari si perviene ad un valore di maggior debito della Pubblica Amministrazione pari a circa 4 punti di PIL: un fardello pesante per l’intero Paese.

 

I provvedimenti europei, e le proposte del Taiis

 

L’Unione Europea sta prendendo provvedimenti sul tema, per evitare che gli Stati membri presentino documenti di bilancio non veritieri pur di  evitare le conseguenti sanzioni. E’ in corso di esame del Parlamento un’ipotesi di direttiva volta a ridurre i ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali, abbreviando i periodi di pagamento per le Amministrazioni pubbliche e sanzionando con maggiore fermezza i comportamenti scorretti.

Allo stesso tempo si cerca nei singoli Paesi di quantificare l’esatto debito delle realtà locali, per poterne successivamente certificare le necessità finanziarie, imbrigliare finalmente i flussi finanziari ed evitare il ricorso a metodi di indebitamento che espongono a rischi di grave instabilità finanziaria. “E’ necessario  – si legge nel rapporto Astrid – anche separare il problema della ricostruzione del debito delle istituzioni regionali e locali da quello dei pagamenti conseguenti dovuti alle aziende, anche se è evidente che una esatta individuazione della dimensione dell’indebitamento commerciale è la premessa per elaborare una soluzione corretta volta a garantire la fluidità dei pagamenti”.

 

Le organizzazioni del Taiis (Tavolo Interassociativo Imprese dei Servizi), assieme ai Sindacati di categoria di Cgil/Cisl/Uil hanno pertanto ribadito la volontà di chiedere al Governo che entro pochi mesi si definisca esattamente la quantificazione dei debiti commerciali delle Pubbliche amministrazioni verso le imprese e si approvi una soluzione in grado di sanare la situazione pregressa in modo compatibile con i conti pubblici, passando per una certificazione obbligatoria del debito e la relativa classificazione (modificando ad esempio la già prevista “facoltà” di certificazione del debito (D.L. 185/2008) in “obbligo” delle Amministrazioni).

 

Per accelerare i programmi di rientro le associazioni di categoria hanno suggerito per i cosiddetti comuni “virtuosi” la possibilità di allentare i vincoli del patto di stabilità, limitatamente alla quota di debiti per investimenti oltre alla possibilità di escludere le risorse comunitarie dalla base di calcolo del patto di stabilità per le regioni del Mezzogiorno.

 

Tale percorso – ha commentato il Taiis –  pur richiedendo una preventiva interlocuzione con Bruxelles, appare praticabile, in quanto potrebbe essere realizzato con un piano di rientro decennale del debito che non inciderebbe più dello 0,40% per anno sul PIL”.

Se si considera che il peso totale dei debiti delle imprese è pari oggi come già detto a circa quattro punti di Pil, appaiono evidenti anche gli effetti macroeconomici positivi che la soluzione dei debiti pregressi avrebbe di riflesso sull’economia. Il recupero di liquidità da parte delle imprese porterebbe le stesse ad investire di nuovo in sviluppo e ricerca, facendo finalmente ripartire il vero motore dell’economia italiana, e conti pubblici in ordine permetterebbero finalmente di organizzare i servizi ai cittadini senza acrobazie pericolose delle amministrazioni e tagli ai servizi essenziali per i cittadini.

Dopo queste proposte, ora la palla torna al Governo. Sperando che sia in grado di operare meglio di quanto fatto fino ad ora.

 

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