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Ticket licenziamento in zona Cesarini

Rispolverando la più classica delle metafore calcistiche, si potrebbe dire che sulla questione del “ticket licenziamento” siamo ormai in “zona Cesarini”. Anzi, in pieno recupero, perché nonostante i ripetuti appelli congiunti di tutte le parti sociali (che ormai da più di un anno hanno sollevato il problema), e nonostante l’impegno di alcuni parlamentari, né nella Legge di Stabilità 2016 (208/15), né nel successivo decreto “Milleproroghe” (210/15) è comparsa alcuna formuletta per scongiurare, o congelare ancora per un po’, il pagamento del cosiddetto “ticket licenziamento” in caso di cambio d’appalto.

Si stimano costi importanti in capo alle imprese
E le imprese tremano: pensate al caso di un’impresa cessante con 50, 100, 200 o più dipendenti da “licenziare”. Si parla anche di centinaia di migliaia di euro ingiustamente dovuti per quello che, nella realtà dei fatti, non è un reale licenziamento. Una boccata d’ossigeno potrebbe portarla la notizia, freschissima, che sono all’esame delle commissioni parlamentari alcuni emendamenti al “Milleproroghe” che ripropongono la questione, proponendo di prolungare almeno per un altro anno la deroga già prevista dalla legge Fornero, in attesa che Governo e legislatore si muovano nel frattempo per trovare una soluzione definitiva che per sua stessa natura non può essere prevista da un decreto di proroga.

Dura lex…
Intanto però, come dicevano i latini, dura lex sed lex. La legge, per quanto dura è pur sempre legge. E così, a far data dal primo gennaio di quest’anno, il contributo di licenziamento è dovuto anche in caso di cambio di appalto: tale contributo è dovuto dal datore di lavoro (appaltatore cessante) che licenzia i lavoratori ivi occupati (i quali dovranno poi essere assunti dall’impresa subentrante, in forza dell’art. 4 CCNL). Tale fattispecie era esclusa dal contributo di licenziamento solo in via temporanea (per gli anni 2013-2015) dall’art. 2 comma 31 Legge n. 92/2012 (Riforma Fornero), ma tale esclusione, per l’appunto, è venuta meno dal primo gennaio di quest’anno.

Un breve promemoria
Si ricorda che il contributo di licenziamento è dovuto dal datore di lavoro all’Inps in tutti i casi in cui la cessazione del rapporto generi in capo al lavoratore il teorico diritto all’indennità Naspi, a prescindere dall’effettiva percezione della stessa. Il contributo a carico del datore di lavoro è fissato nella misura del 41% del massimale Naspi per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli ultimi 36 mesi: quindi, per l’anno 2015, era pari a 490,10 euro (41% di 1.195,37 euro) per ogni anno di lavoro effettuato, fino ad un massimo di 3 anni; pertanto, per i soggetti con 36 mesi di anzianità aziendale, l’importo massimo del contributo era pari a 1.470,30 euro. In caso di rapporti di lavoro inferiori a 12, 24 o 36 mesi il contributo va rideterminato in proporzione al numero dei mesi di durata del rapporto di lavoro intercorso. A tal fine si considera mese intero quello in cui la prestazione lavorativa si sia protratta per almeno 15 giorni di calendario. Per l’anno 2016, la misura del contributo di licenziamento verrà comunicata dall’Inps con apposita circolare. Quanto sopra determina, a partire dal 2016, una nuova problematica di carattere economico in capo all’appaltatore cessante, il quale, formalizzando come “licenziamenti” le risoluzioni dei rapporti di lavoro dei propri dipendenti occupati nell’appalto, non potrà esimersi dal versare il relativo contributo per ciascuno di essi.

Una possibile soluzione: le risoluzioni consensuali
Ora: come si ricorderà, nella scorsa uscita, ricordando la gravità della questione, prospettavamo una possibile soluzione perfettamente a norma, che tutelasse nello stesso tempo gli interessi del lavoratore e delle imprese. Oggi ci spingiamo oltre, e cerchiamo di analizzarla. Il problema può essere superato mutando il titolo delle risoluzioni dei rapporti di lavoro di cui sopra, posto che né la legge, né l’art. 4 CCNL impongono necessariamente, nel caso di specie, di qualificare le stesse come “licenziamenti”: l’alternativa possibile è, quindi, quella di addivenire a risoluzioni consensuali con ciascuno dei dipendenti coinvolti.

Ma bisogna risolvere “caso per caso”
Ciò presuppone, naturalmente, la disponibilità del singolo lavoratore a sottoscrivere la relativa scrittura che gli verrà proposta dall’azienda, e per l’impresa l’onere di “discutere” caso per caso (cosa già di per sé non semplice nel caso di realtà con molti dipendenti e attiva su un bacino ampio); tuttavia, a fronte di una lettera di assunzione già messa a disposizione da parte dell’impresa subentrante nell’appalto, normalmente non sussisteranno particolari motivi per un diniego (fermo restando che ogni singolo caso presenta le proprie peculiarità). Il consiglio è, quindi, quello di utilizzare la procedura prevista dall’art. 4 CCNL coinvolgendo al termine di essa, una volta esaurito l’incontro presso l’Associazione di categoria fra impresa cessante ed impresa subentrante, ed a stretto giro dallo stesso, i lavoratori interessati al cambio d’appalto, ai quali si proporrà contestualmente la risoluzione consensuale del rapporto con la cessante e la lettera di assunzione presso la subentrante. E’ evidente come sia richiesto, a tal fine, spirito collaborativo da parte dell’impresa subentrante; è altrettanto evidente il giovamento che tutta la categoria trarrebbe dal consolidamento di una “buona prassi” in tal senso. Naturalmente, nel caso in cui il singolo lavoratore rifiutasse, per qualsiasi motivo, la sottoscrizione della risoluzione consensuale, la datrice di lavoro cessante sarebbe comunque costretta a licenziarlo per giustificato motivo oggettivo, con il conseguente obbligo di versare il relativo contributo.

Ma nuove nubi si profilano all’orizzonte
Finita qui? Magari… Il punto è che nuove nuvole cariche di tempesta si profilano all’orizzonte, per effetto della rinnovata disciplina sulle dimissioni, che sarà in vigore dal prossimo 12 marzo in virtù dell’art. 26, comma 8 del decreto 151/2015 (uno degli attuativi del Jobs Act, come si ricorderà). Tale disposizione, nell’introdurre le cosiddette “dimissioni telematiche” (valide per le dimissioni ma anche per le risoluzioni consensuali) prevede che le dimissioni non abbiano validità qualora comunicate senza l’apposito modulo telematico. Il Decreto Ministero del lavoro 15 dicembre 2015, pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’11 gennaio 2016 contiene, negli allegati, il modulo e le indicazioni per l’utilizzo dell’apposita procedura. Che non è semplicissima: infatti, allo scopo (lodevole) di contrastare il purtroppo diffuso fenomeno delle dimissioni in bianco, viene introdotta una procedura che ricorda un po’ quella dei codici “captcha” usata sui computer per assicurarsi che davanti allo schermo ci sia l’interessato in carne ed ossa. In pratica, è previsto un doppio livello di autenticazione: dapprima l’utente si dovrà registrare sul portale “cliclavoro” (www.cliclavoro.gov.it) , il che comporta la procedura di iscrizione con relativi codici (username e password), quindi dovrà possedere il Pin per operare sul portale dell’Inps. Una procedura, quest’ultima, tutt’altro che immediata, come sa bene chi l’ha già fatta: infatti il rilascio del Pin Inps è a sua volta distinto in due fasi, la seconda delle quali avviene non per via telematica, ma per posta ordinaria. In aggiunta, il Pin Inps che ti viene rilasciato serve soltanto per il primo accesso, dopodiché va sostituito con un Pin abbreviato attraverso un ennesimo passaggio telematico. Ora, come è semplice comprendere, tali complicazioni calate nella realtà di un’impresa di pulizie, con personale che spesso non ha facile accesso alla rete, ha scarsa dimestichezza con le procedure telematiche o non conosce bene la lingua italiana risultano ulteriormente amplificate, costituendo un aggravio non da poco in caso di dimissioni e risoluzioni consensuali. E’ vero che per questi casi, sempre in virtù del decreto 151 (art. 26, comma 4) ci si può rivolgere anche a patronati, organizzazioni sindacali, enti bilaterali e commissioni di certificazione, ma anche questo rappresenta un notevole aggravio non sempre facile da gestire. Insomma, siamo punto e a capo con le complicazioni: se non è il classico caso di “perfect storm”, poco ci manca.

Link decreto 151/2015

Link Decreto Ministero Lavoro 15 dicembre 2015

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