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Corte Europea: sentenza storica

Il caso

Storica sentenza della Corte Europea sul caso di un avvocato spagnolo, Mario Costeja Gonzalez, che dal 1998 vedeva il suo nome comparire su internet, con semplice ricerca su Google, in un vecchio articolo di giornale relativo a una procedura immobiliare in cui era rimasto coinvolto. Un danno reputazionale, ha ritenuto Costeja, e per di più ormai da tempo senza alcun fondamento, visto che l’inciampo che lo riguardava, quello del 1998 appunto, nel frattempo si è risolto completamente e senza macchia. Con pazienza e decisione Costeja, carte in mano, ha chiamato in causa Google (e non, si badi, il sito sorgente, che nel caso era quello del giornale La Vanguardia) e ha vinto. La sentenza europea, infatti, ha stabilito che gli utenti del Vecchio Continente possano chiedere ai motori di ricerca di rimuovere risultati relativi a query che includono il loro nome, qualora tali risultati siano inadeguati, irrilevanti o non più rilevanti, o eccessivi in relazione agli scopi per cui sono stati pubblicati. Insomma, Google non può più “nascondersi” dietro il ruolo neutro di fornitore di servizi. Il principio della sentenza è chiaro: il motore di ricerca, in quanto organizzatore della sterminata messe di informazioni presente in rete, ha una responsasbilità attiva nel costruire l’immagine di una persona (o di un’azienda) e di “espanderne” la vita -e le pendenze- all’infinito. Il punto cruciale sta nell’algoritmo di Google: quella “formula segretissima”, e sempre aggiornata, che serve a riordinare miliardi di pagine web e restituire all’utente le migliori risposte possibili. Fosse come un tempo, in cui bisognava sapere indirizzi e siti per rintracciare, dopo lunghe ed estenuanti ricerche, le informazioni di cui avevamo bisogno, tutto sarebbe diverso. Ma con strumenti di ricerca sempre più raffinati è tutta un’altra storia. Il sito-sorgente pubblica, poi l’algoritmo comincia a lavorare e ti indicizza. Insomma, secondo i giudici del Lussemburgo il ruolo di Google corrisponde a un vero e proprio “trattamento” di dati, con responsabilità connesse. Non vale nemmeno, secondo la Corte Ue, l’altra argomentazione “storica” di Google, che dice di dover rispondere soltanto alla legislazione Usa, avendo base negli States come Google Inc. Google, infatti, ha società collegate negli altri Stati (come Google Spain, Google Italia, ecc.), e ciò basta a soddisfare la definizione di “stabile organizzazione”.

Il diritto all’oblio, in rete come nella realtà

In sostanza Google è stata obbligata dall’Europa a preservare il “diritto all’oblio”, un principio saldo anche nel diritto italiano, e confermato con la sentenza di Cassazione n. 5525/2012, che rimandava alla Direttiva Ue 46/95 e il Dl 196/2003, meglio noto come codice della privacy. E non si parla solo di illeciti amministrativi o civili: anche per i reati di rilevanza penale esiste l’istituto della riabilitazione, una procedura che consente a coloro che sono stati condannati a seguito di sentenza penale passata in giudicato di chiedere ed ottenere, avendone i requisiti, la cancellazione dei reati dal casellario giudiziario e, conseguentemente, l’estinzione degli stessi. Il termine minimo per la concessione è di 3 anni, che salgono a 8 per i reati commessi da recidivi e a 10 se si tratta di delinquenti abituali. Addirittura se la pena inflitta non è superiore a 1 anno ed il danno e stato interamente riparato prima della sentenza di primo grado, la pena resta per un anno e la riabilitazione è concessa allo scadere di quel termine. Termini, come si vede, tutti inferiori ai 16 anni dopo i quali l’avvocato Costeja Gonzalez era ancora ben presente su internet nell’articolo da cui tutto è partito. Ora, pur non essendo naturalmente il caso di mettere a paragone due realtà estremamente diverse come la reputazione online e il casellario giudiziario, almeno sui tempi un confronto si può fare: se la legge italiana, e parliamo di reati penali e non di semplici illeciti, ritiene che in condizioni normali dopo tre anni si abbia il diritto a una completa riabilitazione (naturalmente su richiesta), la discrepanza salta all’occhio. Insomma, mettiamo il caso di un’impresa (o di un imprenditore) che incorra in qualche pendenza: spesso, come sappiamo, i media tendono ad accanirsi al momento del guaio (fa più notizia), per poi dimenticarsene quando tutto viene smentito o si risolve. E’ a questo livello che l’algoritmo di Google diventa impietoso: è naturale, infatti, che in rete “salga” molto di più la notizia infamante piuttosto che quella (ammesso che sia pubblicata), anche se più recente, della riabilitazione. Un danno non da poco, se pensiamo ad un mondo in cui i requisiti reputazionali contano moltissimo. Ed è per questo che Google è ritenuto responsabile anche se la notizia-fonte è veritiera.

Il modulo di “riabilitazione”

La risposta di Google è stata pronta e proattiva: pur non mancando osservazioni critiche, come quella del co-founder Sergey Brin, che si augura di… dimenticare la decisione della corte europea, e del presidente Eric Schmidt, che nota la contraddizione tra diritto all’oblio e diritto di sapere, riecheggiando il ruolo “web-democratico” di Google, il motore di ricerca ha già messo online un apposito modulo, ancora in fase di perfezionamento (Google, nei prossimi mesi, lavorerà fianco a fianco con le Authority competenti), scaricabile a questo link:

https://support.google.com/legal/contact/lr_eudpa?product=websearch

Il modulo, dal titolo “Richiesta di rimozione di risultati di ricerca ai sensi della legislazione europea per la protezione dei dati personali”, è in via di perfezionamento (nei prossimi mesi Google lavorerà con le Authority competenti per migliorarlo). Compilarlo è molto semplice, basta disporre di una copia di un documento d’identità valido corredato di foto. In questo caso, però, il ruolo di Google diventa quello di “giudice”: infatti, spiega il motore di ricerca, “durante l’implementazione di questa decisione, valuteremo ogni singola richiesta e cercheremo di bilanciare i diritti sulla privacy della persona con il diritto di tutti di conoscere e distribuire le informazioni. Durante la valutazione della richiesta stabiliremo se i risultati includono informazioni obsolete sull’utente e se le informazioni sono di interesse pubblico, ad esempio se riguardano frodi finanziarie, negligenza professionale, condanne penali o la condotta pubblica di funzionari statali”. Come a dire: spetterà a Google, che a tale proposito ha già istituito un’apposita commissione, decidere chi, se e come spedire nei territori remoti dell’oblio.

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