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Dopo un milione di firme: a quando l’ora della blue economy?

(tratto da “GSA Igiene Urbana” n.3, Luglio-Settembre 2010)

 

Il successo della raccolta di firme per i referendum contro la privatizzazione dell’acqua dimostra il grande interesse che c’è nel paese per questo tema. Ma gestire l’acqua richiede attenzione per tutto il suo ciclo dalle sorgenti allo sbocco in mare. Un grande investimento che vale dieci grandi opere. I soldi per sostenerlo ci sono: sono quelli che sprechiamo ogni anno comprado acqua minerale

 

Un milione di firme che pesano

 

La raccolta di un milione di firme a sostegno dell’acqua pubblica è un grande esito di partecipazione, che conferisce a questa mobilitazione una cifra perfino più rilevante di quello che potrebbe essere il risultato del referendum, su cui pesano le incognite del giudizio della Consulta e dell’astensione. Questo risultato sarà utile a perseguire la tanto attesa riforma delle gestioni idriche? Si tratta di una riforma irrinunciabile e urgente, condizione necessaria – anche se non sufficiente – a raggiungere gli obiettivi imposti dalla direttiva sull’acqua decisa a Bruxelles che, tradotti in italiano, significano un grande balzo in avanti nella qualità delle nostre acque interne, di fiumi e laghi, e una maggior sicurezza e continuità nell’approvvigio-namento e nella fornitura di acqua potabile.

Che tante persone si siano sentite spinte ad affermare, con una firma, il desiderio di escludere l’acqua dalle logiche del mercato, dovrebbe imporre alla politica di agire senza aspettare la scadenza referendaria, capitalizzando subito il dato straordinario di partecipazione popolare. Ma ho l’impressione che ciò non avverrà, e semplicemente prevarrà la logica, in questo caso davvero esiziale, del giungere alla conta, con un blocco politico che si schiererà sull’astensione e un altro che affronterà un disperato tentativo di scalata al quorum. Se così fosse, avremo perso tempo, energie e un’importante occasione, forse irripetibile, per giungere a scrivere regole chiare e condivise in un settore, quello idrico, la cui importanza strategica è ovviamente fuori discussione e che, se fosse messo in condizione di attuare gli investimenti da tempo rimandati, potrebbe invece liberare risorse economiche di cui, in questo momento di crisi, si sente un forte bisogno.

 

L’acqua è un bene comune: sia quando scende dal rubinetto che quando scorre nella rete fognaria

 

Da ambientalisti, siamo abituati a considerare l’acqua un bene comune, in qualunque forma esso si presenti: non c’è solo l’acqua ‘San Rubinetto’ che, in mezza Italia, è garantita da aziende di forte tradizione e competenza che hanno saputo assicurare a (quasi) tutti i cittadini l’accesso ad acqua salubre e di buona qualità. Certo in gran parte del Paese le ‘reti colabrodo’ continuano a essere un problema: il patrimonio di aziende sane, risorse, know-how e capacità programmatoria non è equamente distribuito. Ma non meno prioritari sono i problemi e gli investimenti da affrontare nella parte di ciclo idrico posta a valle della fornitura di acqua potabile, e in questo caso parliamo di problemi in cui le differenze tra Nord e Sud si attenuano: le reti scolanti, i sistemi depurativi e, di riflesso, il risanamento dei corpi idrici sono un campo su cui è necessario programmare – e bisogna farlo da ieri – enormi investimenti, per procedere, da subito, con grandi e capillari cantierizzazioni. L’acqua continua a essere ‘bene comune’ anche quando ce ne liberiamo: non basta rivendicare l’accesso all’acqua pubblica, l’acqua non nasce dai rubinetti ma è inserita in un ciclo, quindi ciascuno di noi ha una responsabilità anche quando tira il poco santificato sciacquone. Tutto torna, è un concetto che viene insegnato alle elementari e rapidamente dimenticato, come lo è stato anche, purtroppo, nel corso della campagna per l’acqua pubblica.

Farsi carico di una responsabilità nel ciclo dell’acqua significa impegnarsi non tanto e non solo per l’acqua delle reti d’acquedotto, ma prima di tutto perché l’acqua torni pulita in fiumi, laghi e falde; perché le reti fognarie non continuino a essere delle reti colabrodo; perché si facciano interventi sui sistemi di collettamento e scarico che permettano di evitare incidenti e sversamenti occasionali; perché i depuratori, dove mancano, vengano realizzati, e dove ci sono vengano adeguati alle prestazioni richieste per il risanamento delle acque; perché non si getti in fogna acqua pulita, come succede a ogni pioggia, ma si riducano gli sprechi recuperando le acque piovane, riutilizzando le acque grigie, reimpiegando in agricoltura gli effluenti depurati.

 

Le risorse per risanare le reti idriche ci sono

 

Per fare tutte queste cose occorrono tanta competenza e tanti, tanti soldi. Ma la buona notizia è che questi soldi ci sono, equivalgono a meno di quanto spendano le famiglie in acque minerali, e non sono pezzi distolti di spesa pubblica. Stiamo parlando di avviare la più grande opera infrastrutturale del Paese: l’authority idrica stima in 60 miliardi di euro il deficit di infrastrutture nel settore della gestione idrica e fognaria nel nostro Paese, per investimenti da realizzare nell’arco di un quindicennio. E’ come dire 12 ponti sullo stretto di Messina, alla faccia di quelli che dicono che gli ambientalisti sono contrari alla realizzazione delle grandi opere. E in realtà si tratta di una stima molto moderata e riferita ai soli interventi pubblici: infatti enormi investimenti sono anche quelli richiesti ai privati per mettere mano agli impianti idrici domestici e aziendali, per risanarli e adeguarli; per non parlare degli investimenti richiesti al più grande consumatore di acqua in Italia, ovvero l’agricoltura.

Di certo questi soldi non possono essere cavati dalla voragine del debito pubblico, ma devono essere alimentati da un adeguato sistema di tariffe: ce lo impone la direttiva europea sulle acque, che non entra nel merito delle forme di gestione, pubblica o privata, ma impone a tutti i Paesi membri di assicurare che il servizio idrico venga alimentato da un sistema tariffario che si faccia carico della piena copertura dei costi da parte degli utilizzatori.

 

Ma c’è bisogno di regole

 

Oltre ai soldi occorrono adeguate regole, certe e non soggette a continue revisioni, affinché gli investimenti necessari possano essere sbloccati. Una riforma della gestione idrica in Italia è urgente alla luce della scadenza del 2015, e della ovvia constatazione che i nostri fiumi sono lontanissimi dallo stato di salute imposto, per quella data, dalla direttiva europea 2000/60. Una direttiva che stabilisce principi fondamentali, sia in ordine al raggiungimento di adeguati standard di qualità per i corpi idrici superficiali, sia per quanto riguarda la copertura economica di questi giganteschi investimenti, assicurando che il sistema di tariffe persegua la riduzione dei consumi e disincentivi l’inquinamento (attraverso modalità e automatismi che attuino il principio cardine stabilito a livello comunitario, ‘chi inquina, paga’), senza mortificare il fabbisogno di risorse.

Una riforma efficace e duratura delle gestioni idriche in Italia sarebbe il più importante esito della campagna per l’acqua pubblica, se affidata a forze politiche consapevoli e responsabili; occorre però evitare che insolubili conflitti ideologici finiscano con lo sporcare ancora di più le acque.

 

Una legislazione come la tela di Penelope

 

Urgente è invece una netta cesura rispetto a errori e ondeggiamenti del recentissimo passato. Se l’acqua è un bene comune, la sua gestione deve essere presidiata saldamente da forti ed efficaci autorità pubbliche di controllo e regolazione: solo così la diatriba sull’assetto pubblico o privato delle società idriche può essere gettata alle spine. Ma se su questo tutti – più o meno – sono d’accordo, allora perché nell’estate 2009 è stato depotenziato e declassato quello che era il Comitato di Vigilanza (ora ‘commissione’) sulle risorse idriche? E come ha potuto essere approvato un decreto, come quello che reca il nome di Calderoli, che cancella il caposaldo del sistema di regolazione, cioè le Autorità d’Ambito Ottimale (ATO), faticosamente costituite dopo un quindicennio di defatigante travaglio? Come si può pensare che i soggetti gestori possano programmare e attuare gli investimenti necessari, reperendo e spendendo le somme iperboliche prima indicate, se continuano a essere modificate le regole del gioco? Quale sarà la banca disponibile a sostenere investimenti richiesti da soggetti che non si sa se continueranno a esistere la prossima volta che un Ministro o un Sottosegretario vorranno inventarsi qualcosa di originale? E c’era proprio bisogno di promulgare un decreto – il decreto ‘Ronchi’, all’origine del ricorso referendario – che, per puro puntiglio liberista, ha di fatto bloccato gli affidamenti in corso salvo poi scoprire che, alla resa dei fatti, l’attuazione di questo decreto cambierà poco o nulla delle modalità di gestione in essere, salvo gettarle in un biennio di scompiglio? C’è chi usa, appropriatamente, l’immagine della Tela di Penelope per descrivere lo scoraggiante percorso di riforma delle gestioni idriche in Italia[1].

 

Una politica non ideologica

 

L’ideologizzazione del tema delle gestioni idriche in Italia non ci aiuta a muovere un solo passo nella direzione di quella gestione efficiente ed efficace delle fonti e dei servizi idrici che la legge ‘Galli’ auspica fin dal 1994. E anzi ci porta diritto sulla strada di nuove sanzioni comunitarie per reiterata inadempienza. Ma non è solo quello delle sanzioni il costo che il Paese dovrà pagare: il fatto di non trovarsi pronti a far partire i cantieri dell’acqua pulita, in questo difficile momento di crisi economica, comporta il danno di mancati investimenti di cui mai come ora si avverte il bisogno, la cui copertura è fra l’altro assicurata dalle risorse accumulate dalle gestioni idriche nell’ultimo decennio, in cui l’attuazione degli interventi è stata largamente inferiore rispetto a quanto pianificato. Quella di non far partire il ‘cantiere dell’acqua’ in Italia è una grave responsabilità di cui purtroppo già sappiamo che nessuno sarà chiamato a rispondere. Ma il cantiere dell’acqua, comunque lo si veda, è una grande opera di cui l’Italia ha bisogno. Si tratterebbe infatti di assicurare le condizioni per una stagione di investimenti capace non solo di portare al risanamento delle acque inquinate, ma anche di dare impulso a una ripresa economica basata su infrastrutture di sostenibilità e qualità ambientale: anche se con sfumature di colore blu, è pur sempre di green economy che stiamo parlando.

 

Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia

 


[1]    Massarutto A. A PASSO DI GAMBERO NEI SERVIZI IDRICI, su www.lavoce.info, 8 settembre 2009

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