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Degrado senza vie di fuga

(Tratto da “GSA igiene urbana” n 3-2010)

Nel romanzo più impegnativo della sua pur lunga carriera letteraria Cormac McCarthy disegna per flash ed episodi due personaggi senza storia e senza futuro la cui esistenza è interamente connotata dai rifiuti e dagli scarti che il fiume lungo cui abitano incessantemente trascina con sé.

Non ci sono persone normali a Knoxville, la città dove è cresciuto Cormac McCarthy (che abbiamo già incontrato in questa rubrica raccontando il libro La strada) e dove ha ambientato Suttree, il più ambizioso dei suoi romanzi, pubblicato nel 1979 e tradotto in italiano nel 2009 (Einaudi, € 23). “Signor Suttree – si autoaccusa il protagonista, in un momento di ubriachezza – ci risulta che […] lei ha frequentato vari luoghi disonorevoli nella contrada di McAnally [un pub di quart’ordine], dove ha sciupato diversi anni in compagnia di ladri, derelitti, miscredenti, paria, poltroni, furfanti, spilorci, balordi, assassini, giocatori, ruffiani, troie, sgualdrine, briganti, bevitori, ubriaconi, trincatori e quadrincatori, zotici, donnaioli, vagabondi, libertini e debosciati vari”. Questo è un elenco sommario dei personaggi che popolano il romanzo. D’altronde, a scanso di equivoci, già nell’introduzione l’autore ci presenta il campionario umano del suo racconto: “Eccoci arrivati nel mondo dentro il mondo. In queste lande straniere, queste foibe e sodaglie interstiziali che i giusti vedono dalle auto e dai treni, un’altra vita sogna. Deformi, o neri o folli, fuggiaschi di ogni risma, stranieri in ogni contrada”.
Ma quest’umanità emarginata non è che lo specchio dell’ambiente che la circonda, le fa da sfondo, e che si presenta più spesso nelle forme di una distesa di rottami e macerie o di un cumulo di rifiuti che non con le sembianze di un paesaggio selvatico, di una campagna coltivata, di una struttura urbana, di un agglomerato di edifici abitabili. E anche lo sfondo compare fin dalla prima pagina di un testo che ne conta ben 560: “Antichi muri di pietra sbiecati dalle intemperie, resti di fos¬sili incastonati nelle strie, scarabei calcarei increspati sul fondo di questo scomparso mare interno. Esili alberi scuri oltre le can¬cellate laggiù dove i morti presidiano la loro piccola metropoli […] L’acciaio restituisce la calura del giorno, la senti attraverso la suola delle scarpe. Prosegui oltre i muri ondulati di questo depo¬sito, lungo stradine sabbiose dove auto fracassate occhieggiano torve da zoccoli di calcestruzzo. Attraverso grovigli di sommac¬co e fitolacca e caprifoglio vizzo che costeggiano i dissestati ter¬rapieni d’argilla della ferrovia. Rampicanti grigi torti verso sini¬stra in questo emisfero boreale, ciò che li torce foggia la conchi¬glia del buccino. Erbacce cresciute dal rosticcio e dai mattoni”.
Un destino comune sembra comandare le vite di tutti i personaggi che si incrociano in questo romanzo ricco di episodi, di vicende, di incontri, di affetti, di drammi: “Sulla città incombe qualcosa di ignoto […] I guardiani delle mura hanno fortificato la palizzata, le porte sono chiuse, ma bada, la cosa è all’interno, riesci a intuirne la forma? Il luogo in cui è custodita o le fattezze del volto? E’ una tessitrice, spola sanguinolenta lanciata attraverso una curvatura del tempo? Una cardatrice di anime dal manto del mondo? Una cacciatrice con segugi al seguito? […] Caro amico, non conviene soffermarcisi perché è proprio così che la si invita a entrare”.
Ma nonostante questo incipit ridondante e un po’ barocco, Suttree è tutto meno che un romanzo “gotico”. E’ una storia di vite ridotte al grado zero della sussistenza, ma ricche di amicizie, di affetti e soprattutto di reciproco rispetto.
Su questo sfondo umano e ambientale degradato, a volte disperato, e sempre nàufrago, si stagliano le figure dei due protagonisti le cui esistenze si intrecciano: Suttree che, abbandonata una condizione agiata, una moglie e un figlio, di cui verrà a sapere la morte, ma che non gli sarà concesso di rivedere, è alla ricerca di una vita più autentica. Abita in un barcone ormeggiato fuori città, sulle rive del fiume Tennessee, pescando e vendendo pesci gatto, ma non più di quanti gliene servono per condurre una vita monacale. E Harrogate, un ragazzo finito in prigione perché colto sul fatto mentre si “accoppiava” con dei buchi ricavati nelle angurie di un campo altrui, e che in prigione incontra Suttree; e lo seguirà poi, per raggiungerlo a Knoxville quando entrambi avranno finito di scontare la loro pena (ma entrambi avranno modo di essere arrestati ancora nel corso del tempo); mantenendo però le distanze: Harrogate installato in una capanna di fortuna che si è costruito con materiali di risulta sotto un ponte; Suttree nel suo barcone.
Harrogate, che è senza mestiere e non sa fare niente, ma impara e inventa rapidamente tutto, è alla continua ricerca di espedienti che gli permettano di fare soldi o di diventare ricco: la pesca nel fiume su un barcone ricavato da due cofani di camion; la caccia ai pipistrelli con bocconi volanti impregnati di arsenico per venderli a una stazione biologica che li sta studiando; lo svaligiamento di bancomat e casseforti penetrando nelle banche dalla fitta rete di caverne inesplorate e di reti fognarie che si snodano sotto la superficie di quella città.
Suttree sembra invece più interessato agli incontri con gli umani: di molti vicini, sbandati come lui, a volte si prende cura e presta comunque attenzione alle loro vicende, alle loro parole, alle loro vite. Altri li frequenta perché ama tutto ciò che è diverso da lui e a volte si lascia andare a una notte di bagordi insieme agli amici che incontra al pub. Di un predicatore fondamentalista, che tiene incatenata la famiglia in una rigida osservanza dei precetti religiosi, diventa l’aiutante nella pesca ai molluschi in un tratto deserto del fiume, dove il suo datore di lavoro si è accampato. Intrecciando, a insaputa del padre, una tenera e intensa vicenda di sesso e amore con una delle sue figlie, che poi morirà schiacciata dal crollo del rifugio di fortuna dove il patriarca aveva recluso la sua famiglia; e nel frattempo scoprendo la doppia vita del predicatore, bigotto lungo il fiume e frequentatore di bordelli, pub e bische durante le sue trasferte in città. Di una prostituta d’altro bordo che si innamora di lui, Suttree diventa il mantenuto, concedendosi per qualche tempo un tenore di vita che niente ha a che fare con quello di un pescatore di pesci gatto borderline. Ma in un altri periodi della sua vicenda insegue la solitudine con un’escursione di mesi in una montagna disabitata, fino a rischiare di morire di fame, o congelato, o in entrambi i modi.
A contrassegnare le vicende di questo sodalizio che si configura sfuggevolmente come un rapporto tra maestro e allievo, senza mai assumerne esplicitamente la forma, c’è comunque sempre lo sfondo della “monnezza”, dei rifiuti, degli scarti, da cui spesso ricavare anche materiali di recupero, ma in cui sempre prevale l’aspetto del degrado, dell’abbandono, della decomposizione: sia nelle anse del fiume, il cui lento fluire fa da filo conduttore del romanzo, sia a terra. Per esempio:
“Con la mandibola nella piega del braccio osservava pigramente i fenomeni sulla superficie, chiazze di liquame che si muovevano appena, coaguli grigi di rifiuti senza nome e preservativi gialli che affioravano dall’oscurità in lenti rimestii come versioni giganti di fasciole o tenie”.
Quello frequentato da Suttree non è un fiume dalle acque limpide capace di sospingere gli uomini alla purificazione del corpo e dell’anima: “Poteva sentire il fiume confabulare flebilmente sotto di lui, vecchio e denso fiume coperto di rughe. Sotto il flusso dell’acqua cannoni e affusti, orecchioni incagliati che arrugginivano nel fango, barche a chiglia decomposte in mucillagine. Leggendari storioni dal corpo corneo e pentagonale, pesci gatto e carpe cupree e lucenti come lasche, con il loro ventre pallido e senza sprue, una densa fanghiglia tempestata di vetri rotti, ossa e barattoli arrugginiti e cocci di stoviglie venati di crepe nere di fango”.
Così come non è umana la città vista dal fiume: “Dietro di loro la città che si delineava aveva l’aria pesta, stanca, un profilo scuro e fumate contro un cielo di porcellana. La riva del fiume scintillava sudicia e tortuosa nella calura e non un suono attraversava la solitaria mattina d’estate”. Infatti, anche scendendo a terra dal barchino con cui Suttree si sposta lungo le anse del fiume, il panorama non cambia. Anche l’ubriachezza concorre a dare al paesaggio un aspetto delirante:
“Attraversarono rosticcio e lerciume, coi suoi calcagni che ammassavano montagne di rifiuti. Un mondo indistinto si allontanava oltre le sue dita dei piedi, sagome storte di baracche che si ritagliavano livide nella luce amara dei lampioni. La carcassa arrugginita di un’automobile passò lenta alla sua destra. Foschi scenari che si rapprendevano nella notte estiva, pallidi disegni a inchiostro di rottami piegati contro un cielo di carta, barcaioli di Rorschach che spingevano silenziosi la loro pertica su un mare lastricato di lune. Si ritrovò steso nel buio con la testa sull’imbottitura ammuffita di un vecchio sedile di auto, tra casse da imballaggio e scarpe rotte e giocattoli di gomma screpolati dal sole”. Non siamo in una discarica. E’ tutto il mondo, per lo meno quello accessibile a Suttree e ai suoi sodali, l’unico che il romanzo ci fa vedere, a essere un’immane e sconfinata discarica: di uomini e cose. Tanto che i paradigma del rifiuto finisce per abbracciare e assimilare a sé anche quanto la natura produce spontaneamente:
“Alzò gli occhi gonfi sulla desolazione che lo circondava, i campi fumanti con le ortiche e i carici color metallo come erbacce artificiali in fil di ferro, un paesaggio scorticato come dai cumuli di scarti si alzavano forme vagamente familiari. Dove i lotti soffocati da sterpaglia e vetri e vecchi stronzi gessosi lasciati da cani erranti sfumavano verso una sponda indistinta di baracche grigio pietra e carcasse d’auto sventrate”.
In questo paesaggio le abitazioni non si distinguono dalle discariche: “In fondo alla strada il terreno digradava rapidamente verso un lungo budello intasato da un caos di stie e baracche, anonime costruzioni di carta catramata e lamiera, abitazioni fatte di nudo cartone e pisciatoi di assi traballanti inghiottiti da un turbinio di mosche. Interi isolati di stamberghe attraversati non da strade ma da sentieri per le capre e angusti vicoli ricoperti di sabbia nera dove vagavano bambini e cani grigiastri”. Siamo, ricordiamocelo, nell’America a cavallo tra gli anni ’60 e ’70: quella in cui Hollywood ha messo a punto e diffuso in tutto il mondo gli stereotipi dell’american way of life, fatta di famigliole, casette, tagliaerba, automobili nel garage, serate nei drive-in e domeniche passate al centro commerciale.
A volte brevi flash bastano a riportare il lettore – o a trattenerlo – in questa atmosfera di degrado. Per esempio questo :”Attraversò recinti di legno maleodoranti dove bambini piangevano e cani da guardia vigliacchi e spelacchiati se la battevano uggiolando”.
Anche i personaggi che fanno capolino nella vicenda dei protagonisti assomigliano spesso a discariche: “Si dondolava impercettibilmente per sottrarsi alle zaffate che provenivano da suo interlocutore. E intanto studiava i disegni di sugo e cibo sulla camicia e la cravatta del vecchio avvocato, la sua cintura a corda di pacco. Che in giorno si era spezzata mentre faceva la coda al self-service S&W lasciandolo lì col vassoio in mano, i piedi impastoiati nei vecchi calzoni, le gambe smilze da vecchierello dello stesso bianco sporco della camicia, e ugualmente stropicciate”.
E lo stesso vale per le abitazioni, come accade nella visita a un vicino giunto al termine della sua vicenda terrena: “Si ritrovò ai piedi del materasso e abbassò lo sguardo sul cenciaiolo. Giaceva cogli occhi chiusi, la bocca contratta e i pugni serrati lungo i fianchi. Come se si fosse costretto a morire. Suttree percorse con lo sguardo le montagne di cenci ammuffiti e la legna da ardere accatastata e gli scaffali di bottiglie e boccali e gli innominabili tesori di pattume, utensili di cucina guasti o lampade, migliaia di case smembrate, effetti personali esausti di vite desolate come la sua”.
Inutile dire che anche nella prigione, dove Harrogate, rifiutandosi di servire in cucina, viene inviato alla corvée dei lavori forzati (che comunque riesce a scansare), l’attività da svolgere ha a che fare con i rifiuti: “I detenuti battevano lo spiazzo a passo strascicato riempiendo i loro sacchi di tela di bottiglie e rifiuti […] Raccoglieva ogni cartaccia, ogni bottiglia con una specie di sollecitudine, guardandosi intorno come per scoprire chi le avesse lasciate lì”.
Ma è il flusso dei rifiuti trascinati dalla corrente del fiume che assimila a sé i personaggi che lo frequentano; primo tra tutti, Suttree: “[il fiume in piena] scendeva da un entroterra sventrato e gli scorreva accanto ribollendo in una specie di gorgoglio bavoso. Trasportava rifiuti e zattere di ciarpame, bottiglie di vetro affumicato dal sole che custodivano corolle esplose color malva e oro, bucce d’arancia ambrate dal tempo. Il cadavere roseo e rigonfio di una scrofa e vasi e casse e sagome di legno dilavate in rigidi omologhi di viscere e barili del petrolio vuoti incagliati in chiazze di limo dove lo spettro appare e scompare colpevole. […] Avanzando lenti a colpi di remi nella pioggia attraverso quella galleria di curiosità si sentiva poco più di un ennesimo oggetto liscivato dalla terra e spinto via, trascinato dalla corrente che defluiva dalla città, quella forma fredda e granulosa oltre la pioggia che nessuna pioggia avrebbe saputo far tornare pulita. Suttree tra gli scarti come feccia sul fondo di un calice, particella di materia attonita che si essicca nel fango conciante, la terra dannata della defunta alchimia cittadina”.
Non c’è evoluzione, non c’è riscatto, non c’è speranza, né per gli uomini né per le cose in questo romanzo pur ricco di vicende. Sulle persone come sulle cose domina incontrastata la “cosa” che ne determina il destino: quella che abbiamo incontrato all’inizio, senza che l’autore volesse o potesse darle un nome; e che rincontriamo alla fine, quando Suttree lascia in autostop i luoghi che sono stati il teatro delle vicende narrate: “Da qualche parte nella foresta livida lungo il fiume è in agguato la cacciatrice, e tra pennacchi di grano e nella moltitudine turrita delle città. Opera in ogni dove e i suoi cani non si stancano mai. Li ho visti in sogno, sbavanti e feroci, cogli occhi di una fame vorace d’anime di questo mondo. Fuggili”.

Guido Viale

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